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Il mio profilo

Dopo tanto successo con il mio blog la faida di scampia,eccovi presentato il sito...

 

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Cesare Pagano accusato di quattro omicidi..

 

Articolo copiato da il roma scritto da Andrea Acampa...

Quattro omicidi dietro i quali c’è il nome del boss degli scissionisti Cesare Pagano. Ancora pentiti a ricostruire un omicidio. Ecco quando è accaduto ieri

in Corte d’Assise nel corso del processo a carico di Cesare Pagano, accusato

di essere il mandante di quattro differenti delitti. Ad accusare il capoclan è il

collaboratore di giustizia Luca Menna che ha confessato di aver preso parte

a due omicidi e ad un duplice omicidio. Il pentito non ricordava i nomi di tutte le vittime, ma soltanto il soprannome di qualcuno. Tutti omicidi ordinati dal

capoclan Pagano. Fatti di sangue risalenti al 2009, quando a Mugnano fu ucciso Salvatore Caianiello detto ”manomozza”, il 65enne freddato a novembre

di tre anni fa da 4 colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata, tre dei quali

lo hanno raggiunto al volto, l’ultimo quello letale alla testa. Poi c’è l’omicidio a

giugno 2009 di Antonio Matrullo detto ”o’nano”, ed infine il duplice omicidio

risalente al 2007 di Vincenzo Vitale e Angelo Esposito. Un delitto commesso

insieme a Francesco Attrice, il 30enne di Scampia attirato in una trappola da

un uomo del clan e ammazzato ad agosto di due anni fa. Tra il 2004 e il 2005

la guerra per il predominio dei territori a nord di Napoli fece contare più di 70

morti ammazzati. Menna ha raccontato la sua carriera criminale iniziata con

il clan Di Lauro nel 2004, per la cosca di ”Ciruzzo o’ milionario” vendeva la droga. Poi, con la faida i due cognati di Menna, Biagio Esposito e Carmine Cerrato, oggi entrambi pentiti, si schierarono con gli scissionisti, lui, per paura di

essere ucciso interruppe la semilibertà alle ”case celesti” e si fece arrestare,

si consegnò alle forze dell’ordine dopo un anno, per scampare alla guerra di camorra e non finire sotto i colpi dei killer. Nel 2006 venne scarcerato e riprese

a fare affari con la droga, però, in proprio. Questo è quanto ha raccontato in aula Menna che non ha fatto riferimento all’omicidio Dell’Oioio del quale ha detto di non sapere nulla. Insieme a Menna dovevano essere ascoltati i pentiti

Luigi Secondo che non è stato sentito ancora e Biagio Esposito che non ha

preso parte all’udienza per motivi di salute. Il giorno precedente erano stati

sentiti Carlo Capasso detto “capassiello” e Carmine Cerrato. Quest’ultimo ha

riferito che i mandanti del delitto sono stati Cesare Pagano (difeso dagli avvocati

Luigi Senese e Saverio Senese) e Raffaele Amato, quest’ultimo non imputato

per il delitto. Ha detto di aver appreso la circostanza dallo stesso Pagano, che

gli aveva parlato del piano di uccidere tutti quelli del gruppo di Mugnano. Inoltre ha detto di aver parlato dell’omicidio anche da Enzo Notturno e di aver saputo da lui alcuni dettagli sulla fase esecutiva. Quanto alla fase esecutiva ha

tirato in ballo per la prima volta Giovanni Esposito “‘o muort”, degli Abbinante, nome che sino ad ora non era stato fatto da altri pentiti. L’avvocato Saverio Senese aveva chiesto di poter ascoltare proprio Esposito come teste di riferimento, ma quest’ultimo si è avvalso della facoltà di non rispondere. La Corte ha sollecitato il pm a depositare gli atti con le dichiarazioni di Menna, atti

inediti, mai depositati che incastrano il boss Pagano. L’udienza è stata rinviata al 16 ottobre, mentre il 6 o il 12 novembre saranno sentiti Menna per il

controesame della difesa e gli altri due pentiti Secondo ed Esposito.

 

Casalesi e Bin Laden

CASERTA - Li odia. Di un odio antico, profondo, radicato. Li odia perché gli hanno perquisito la casa, condannato all'ergastolo il padre, arrestato la madre. Li odia perché sono magistrati, uomini di legge, amministratori di quella giustizia che lui rinnega.Non perché anarchico ma perché camorrista, e di giustizia ha un altro concetto e un altro modello: l'amministra da sé, condanna senza appello, applica la pena di morte anche per la più piccola mancanza. E la morte aveva deciso per i suoi nemici: Federico Cafiero de Raho, prima di tutto, il capo del pool antimafia che indaga da quasi vent'anni sul clan dei Casalesi, e che insultava ogni volta che ne aveva l'occasione. E poi gli altri. Voleva ucciderli tutti, scatenando una guerra senza quartiere, senza confini, planetaria. Voleva un altro 11 settembre, e ai suoi amici di Al Qaeda aveva chiesto armi e uomini, offrendo supporto logistico e la sua eterna amicizia. Se il progetto è rimasto sulla carta è solo perché è stato arrestato. Se il progetto oggi è noto è perché il suo braccio destro ha iniziato a collaborare con la giustizia e l'ha raccontato: proprio al nemico, proprio ai pm della Dda di Napoli.

 

Lui, il pentito, si chiama Roberto Vargas. Era stato arrestato con l'accusa di triplice omicidio, tre manovali del clan che aveva disubbidito alla regola dettata da Nicola Schiavone, il primo figlio del boss chiamato Sandokan. Il 29 novembre, interrogato dal pm Giovanni Conzo, ha raccontato gli inquietanti retroscena delle stragi mancate. E la frattura nel cartello casalese, con il piano per uccidere anche il rivale Michele Zagaria. Vargas riferisce cose che avrebbe appreso direttamente dal suo capo che in quel periodo, tra il 2008 e il 2009, viveva - latitante volontario - in un appartamento a San Marcellino dal quale non usciva quasi mai.

 

È il 2009, verosimilmente tra marzo e aprile, comunque prima del 15 maggio, data dell'arresto di Roberto Vargas. Nel verbale, depositato nell'inchiesta a carico del sindaco di Casapesenna, Fortunato Zagaria, racconta la premessa di quella rivelazione: «Molti anni prima Nicola Schiavone mi aveva parlato di una lettera che Michele Zagaria aveva inviato a Raffaele Cantone, magistrato originario di Giugliano. In tale lettera Zagaria mandava a dire al dottor Cantone che lui personalmente non aveva niente contro lo stesso magistrato; ciò perché in quel periodo giravano voci di un imminente attentato ai danni del dottor Cantone da parte di Michele Zagaria ed Antonio Iovine». Il giovane Schiavone era molto arrabbiato con Michele Zagaria perché in quella lettera «parlava a titolo personale e non a nome dei “casalesi”, facendo così intendere che solo lui non aveva motivi di risentimento contro il dottor Cantone, senza includere anche “Casale”, ovvero l'organizzazione casalese. In questo modo sembrava che l'organizzazione dei casalesi e dunque in primis la famiglia Schiavone ce l'avesse con Cantone, mentre Zagaria non aveva nulla contro di lui».

 

Quindi, se Zagaria avesse fatto un attentato «la colpa sarebbe ricaduta sicuramente “su Casale” e non sullo stesso Zagaria. Infatti nel paese si vociferava che sia Zagaria Michele, che Antonio Iovine, dicessero in giro testualmente: ”I guai a Casale ed i soldi a San Cipriano e Casapesenna”».

Dunque, la rivelazione. «Nicola Schiavone mi confidò di aver avuto contatti con dei terroristi di “Al Qaeda” in quanto lui era intenzionato a colpire il giudice Cafiero de Rago, che era stato l'artefice di tutti gli ergastoli comminati a seguito di Spartacus 1. Schiavone mi confidò inoltre che aveva un forte astio per tutto il pool della Dda di Napoli, mi disse anche che da lì a poco sarebbero arrivati dei bazooka monouso da consegnare a questi terroristi che avrebbero dovuto compiere diversi attentati ai predetti magistrati del pool che si occupava della camorra casalese».

 

La rete islamica di Bin Laden? Addirittura? «Schiavone mi disse che l'alleanza con “Al Queda” era molto forte e che lui avrebbe dato appoggio logistico nel territorio aversano; in cambio queste persone gli avrebbero fatto gli attentati contro i magistrati del pool per fargli un piacere, come testimonianza della loro alleanza. Mi disse che lui non era come il padre, ma lui era peggio del padre. Nicola era infatti arrabbiato del fatto che il clan era stato oggetto di un altro Spartacus, ovvero Spartacus 3 (nel corso del quale fu arrestata la madre, Giuseppina Nappa, ndr)». Prima di uccidere i magistrati, doveva però eliminare il nemico interno, il potentissimo e ricchissimo Michele Zagaria. Racconta ancora Roberto Vargas: «Schiavone chiese a mio fratello Pasquale di fingersi deluso dalla famiglia Schiavone e così chiedere un avvicinamento a Michele Zagaria, lamentandosi del fatto che non gli mandavano abbastanza soldi per fare la latitanza. Appena al cospetto di Zagaria, mio fratello avrebbe dovuto ucciderlo all'istante, decapitarlo e buttarne la testa fuori al portone di casa a Casapesenna. Questo perché Michele Zagaria sarebbe stato un ostacolo ai suoi piani per gli attentati contro il pool dei magistrati». Successivamente, sarebbe toccata ad Antonio Iovine».

 

Nella casa di San Marcellino, Nicola Schiavone detta il cronoprogramma degli omicidi: prima Ernesto Bardellino e l'intera vecchia guardia del clan, poi «il pool di magistrati, per primo Cafiero de Raho e poi a seguire chi del pool, che si occupava della camorra casalese, saremmo riusciti a colpire. L'azione sarebbe stata portata a termine dai terroristi, mentre noi avremmo fornito gli appoggi logistici». Terroristi già addestrati «in quanto avevano preso parte a fatti di sangue all'estero» ma che siccome «avevano avuto alcuni problemi, si erano alleati con Nicola Schiavone al fine di ottenere dei rifugi sicuri nell'agro aversano», dove il giovane boss li aveva incontrati. Vargas doveva mantenere i contatti, il suo capo sarebbe andato a Modena per non dare nell'occhio.

Progetto ancora attuale? Non si sa, non lo sa nessuno, neppure Vargas. Che rivela: «Dopo l'arresto di Nicola Schiavone (nel giugno del 2010, ndr), Carmine Schiavone ha preso il posto del fratello maggiore quale capo del clan dei casalesi. Non so se Carmine abbia le capacità per portare in atto tali attentati contro il pool di magistrati del Dda».

Cacciatoda Napoli Antonio Mennetta

Amara sorpresa per Antonio Mennetta detto ennino,nipote di Salvatore Petriccione e' attuale reggente del clan della venella grassi.Su richiesta della direzione investigativa antimafia,la procura di Napoli ha dato parere favorevole al divieto di dimora in tutti i comuni della Campania per Antonio Mennetta ritenuto soggetto pericoloso.Una sorte di esilio forzato per ennino,che oltre alla venella grassi e all'alleanza con i marino-notturno-pariante stava partendo all'assalto di melito di Napoli,comune sotto lo stretto controllo degli Amato-Pagano.Infatti fonti investigative confermano la ferma volontà di questo nuovo sodalizio criminale di scansare e prendersi le zone controllate dagli Amato-pagano.Ennino insieme a Rosario Guarino detto joe banana e Fabio Magnetti si erano accaparrati anche le zone del rione berlingieri e di San Pietro a patierno.Comunque visto il grande lavoro delle forze dell'ordine Sara difficile rimanere compatti per il gruppo della venella grassi,dopo le ultime mazzate investigative,infatti il clan e' stato frantumato dopo gli arresti dei capi,e la latitanza dei reggenti Rosario Guarino e Fabio Magnetti,più l'esilio forzato per Antonio Mennetta che sicuramente non lo rispetterà fino in fondo.Visto anche gli interessi il volume di affari che stava costruendo....

Cosi' ammazzammo Attilio Romano'

Quella sera io e Mario Buono fummo convocati tramite Ciro Maisto,ci disse che ci dovevamo recare immediatamente fuori al bar rispoli sito in mezzo all'arco.Presi il mio tmx e andai a prendere Mario Buono,quando arrivammo ci accorgemmo subito della grande confusione che regnava,scooter moto e diversi tmx uguale al mio partivano tutti in direzioni diverse.Subito non capimmo cosa stava succedendo,successivamente Ciro Maisto ci venne incontro dicendoci che Cosimo di Lauro aveva voluto riunire tutto i killer del clan di Lauro per impartire lui stesso gli ordini di morte senza servirsi di ambasciatori.Ci informo anche che Cosimino impartiva gli ordini e i killer partivano immediatamente per commettere omicidi,una scena surreale.Infatti Cosimino discuteva con due persone alla volta senza farli scendere nemmeno dalle moto,ordinava e bisognava partire immediatamente sperando di intercettare un familiare o meglio ancora uno scissionista e abbatterlo immediatamente,premio tremila euro in contanti.Dopo che ci aveva informato di cosa stava succedendo,Ciro Maisto ci fece segno di seguirlo all'interno del bar rispoli,dove nel frattempo ci aspettava Francesco Cardillo altro killer dei di Lauro,sorbimmo un caffè e subito dopo Ciro Maisto ci informo che si doveva assassinare il nipote di Rosario Pariante,uno dei capi del cartello degli scissionisti,la vittima era Salvatore De Luise che aveva da poco aperto un negozio di telefonia alle spalle del corso secondigliano.Ci informo'anche che una persona di sua fiducia aveva fatto diversi sopralluoghi e che la vittima proprio in quel momento si trovava all'interno del negozio,poi ci disse se c'e la sentivamo di partire immediatamente ad ammazzarlo.Ci diede ancora qualche indicazione e si allontano',io e Mario Buono ci armammo e partimmo alla volta del negozio per commettere l'omicidio,strada facendo ci mettemmo d'accordo su chi dei due avrebbe sparato,e visto che io stavo guidando il tmx Mario Buono mi disse che sarebbe entrato lui ad ammazzare Salvatore De Luise,così ci accordammo.Questa che sto riportando e la ricostruzione dell'omicidio di Attilio Romano vittima innocente della camorra,ammazzato perché quella maledetta sera si trovo' nel posto sbagliato al momento sbagliato,la ricostruzione e stata fatta in base alle dichiarazioni rese da Vincenzo Lombardi killer pentito del clan di Lauro e grande accusatore del clan.Ecco il suo racconto che continua minuziosamente per ricostruire il barbaro assassino.Strad facendo domandai a Mario Buono se si era fatto dare qualche indicazione in più per riconoscere nei dettagli la vittima,nel frattempo eravamo arrivati a pochi metri dal negozio,bisognava solo attraversare la strada,Mario Buono mi fece cenno con la mano di fermare lo scooter,mi informo' che non era il caso fare tutti il giro dello sparti traffico,mi disse di aspettarlo la avrebbe attraversato a piedi la strada.Così fece,preparo l'arma e lo vidi attraversare la strada,poi di corsa nel negozio e sentii due tre spari,vidi di nuovo Mario Buono correre verso di me gridando a gran voce che a secondigliano comandavano i di Lauro.Fuggendo via Mario Buono mi racconto di come aveva ucciso Salvatore de Luise dandogli il classico colpo finale alla testa,fuggimmo miezz a l'arc e fermai di nuovo fuori al bar rispoli Mario Buono che si diresse nel portone dove si trovava il nostro covo,li' dove si decidevano gli agguati e la strategia per massacrare quanti più scissionisti possibili.Io mi diressi direttamente a casa di Ciro Maisto per informarlo che l'agguato era andato a buon fine,ci abbracciammo e stavamo commentando le fasi dell'agguato quando ci raggiunse di corsa Francesco Cardillo che ci informo che avevamo ammazzato la persona sbagliata,forse il commesso del negozio estraneo alla faida in atto e agli ambienti camorristici.Poi mi consiglio'di nascondermi e non farmi vedere in giro per un paio di settimane.

Ecco chi ammazzo' Giuseppe Pica


Erano stati costretti ha risarcire il clan di Lauro per una rapina commessa pochi anni prima.Luigi Magnetti insieme a Luigi Giannino si erano messi a rapinare i commercianti di via Dante e del corso Italia,amici sia dei di Lauro che degli scissionisti.Gli scissionisti chiedevano con insistenza di convocare una riunione con Marco Di Lauro per capire la posizione dei di Lauro e per scoprire cosa c'era dietro queste rapine,tutte in danno a commercianti vicini ai clan.Marco di Lauro era furioso con gli affiliati che ancora non erano riusciti a capire chi all'interno del clan rapinava questi commercianti,per questo aveva incaricato Giuseppe Pica il suo portavoce e capopiazza del rione dei fiori,di mettere a ferro e fuoco la zona della venella grassi e scoprire chi stava disobbedendo agli ordini del clan.Con il suo carisma e il suo carattere autoritario in meno di una settimana Giuseppe Pica venne a sapere che a commettere soprusi e rapine nella zona di via Dante erano Luigi Giannino e Luigi Magnetti,che senza il consenso del clan di Lauro si erano messi a rapinare e a fare estorsioni per conto loro.Vennero picchiati e costretti a risarcire il clan di Lauro che nel frattempo aveva restituito i soldi a tutti i commercianti rapinati,Giuseppe Pica andò anche oltre consigliando a Marco di Lauro di gambizzarli o mandarli via da secondigliano.Nel frattempo Marco Di Lauro aveva mandato a dire a Raffaele Amato il capo degli scissionisti che la faccenda era chiusa e che il clan di Lauro aveva provveduto a risarcire i commercianti e che rapine come quelle non sarebbero più accadute,messaggero fu un affiliato dei di Lauro detto quagliarella per la sua somiglianza con il calciatore.Da quel momento in poi Luigi Magnetti e Luigi Giannino furono sempre trattati in malo modo da Giuseppe Pica che non si risparmiava su nulla.Più il tempo passava più l'odio nei confronti di Giuseppe Pica aumentava,erano svegli Luigi Giannino e Luigi Magnetti appena vent'enni,pur di ammazzare Giuseppe Pica erano pronti a passare con gli scissionisti E gestirsi loro la piazza di spaccio della venella grassi,miniera d'oro rimasta dopo la faida di scampia saldamente nelle mani dei di Lauro.Una piazza di spaccio la venella grassi in grado di fatturare anche 150.000mila euro al giorno.E i ragazzi della venella grassi cavalcavano il malcontento per i pochi spiccioli guadagnati su una piazza gestita interamente da loro,anche se poi il guadagno andava tutto interamente alla famiglia di Lauro.Fu così che Luigi Magnetti Luigi Giannino e Rosario Guarino decisero di contattare i capi degli scissionisti per affiliarsi al loro cartello,come prova di fedeltà e per essere ammessi nel clan oltre ad abbandonare i di Lauro si impegnarono a massacrare tutti gli esponenti di rilievo rimasti ancora attivi nel clan di Lauro,uno tra tutti Giuseppe Pica che Sara la prima vittima di questa nuova guerra fratricida.

Quella notte dormirono pochissimo Luigi Giannino e Luigi Magnetti,erano tesi ma contenti di cacciare via tutto quel rancore represso nel tempo,finalmente la loro vendetta era pronta,bisognava solo servirla,massacrare Giuseppe pica.Entrambi indossavano tute da ginnastica e calzavano scarpette sportive,cappelli con visiera e lo scooter pronto,il mitico sh300 mezzo favorito insieme al tmx per commettere agguati.Si erano organizzati alla perfezione,Giuseppe Pica andava massacrato fin dentro il rione dei fiori,sfidando chiunque malauguratamente si fosse messo di traverso.Luigi Giannino era il guidatore mentre Luigi Magnetti occultava sotto la felpa la mitraglietta scorpion.Erano pronti,nessuno li avrebbe fermati,Giuseppe Pica come sempre era mattiniero,infatti era lui Ha organizzare i turni delle varie piazze di spaccio.Quella mattina si trovava vicino al bar all'interno del rione dei fiori a pochi passi dal comune,con lui oltre i soliti affiliati c'erano i suoi due guardaspalle tra cui un certo Damiano armato di pistola.Tutto si svolse in pochissimo tempo,una manciata di minuti,arrivarono solo scooter Luigi Giannino e Luigi Magnetti che con la mitraglietta ben in vista incomincio a sparare.Fu il fuggi Fuggi generale,scapparono tutti,anche killer di prima grandezza dei di Lauro se la diedero a gambe,Giuseppe Pica forse per la paura ritardo' la corsa,rimase stupito nel vedere cutaletta e o mocill entrare armati con tanta audacia fin dentro il terzo mondo.Quando realizzo' che il vero obiettivo era lui cerco di scappare facendo il giro dell'edificio,per entrare in quei portoni di ferro fatti costruire apposta in caso di blitz o di agguato.Erano tutti chiusi,ma successe una cosa assurda che forse ha a che fare con il destino o la fatalità.Mentre Luigi Magnetti lo puntava nell'istante di premere il grilletto la mitraglietta si inceppo',nel caos e nella fuga il guardaspalle di Giuseppe Pica Damiano aveva perso la pistola,e proprio con quella pistola Luigi Giannino la raccolse e sparo un solo colpo in faccia a Giuseppe Pica ammazzandolo sul colpo,oltre che sfugurarlo.Ammazzato con la pistola del suo guardaspalle,una fatalità che salvo sicuramente la vita a Luigi Giannino e Luigi Magnetti che subito dopo l'agguato se ne andarono soddisfatti e più leggeri abbandonando odio e rancore repressi per anni.Con questo omicidio fu siglato l'accordo e l'affiliazione con gli scissionisti,oltre che la nuova guerra tra i girati e i di Lauro.C'e da dire che i di Lauro sapevano perfettamente che Luigi Giannino e Luigi Magnetti stavano passando nelle fila degli scissionisti,tra i di Lauro erano già pronti Mario Buono Carlo Capasso Raffaele Musolino Antonello Faiello e Nunzio Talotti per frenare sul nascere le mire espansionistiche di Giannino e Magnetti,ma stranamente Giuseppe Pica li fermo' aspettando che l'ordine arrivasse direttamente da Marco Di Lauro prima di intraprendere qualsiasi decisione.Una fedeltà e una disciplina nei confronti del boss che costarono la vita oltre che a Giuseppe Pica,a tanti altri affiliati.

 

Mandato

Cosi ammazzammo Ciro Maisto

Per non farlo insospettire mandarono il suo migliore amico a citofonarlo fino a casa,con la scusa di provare la moto da poco comprata doveva portarlo direttamente dietro i giardinetti del terzo mondo,dove mimetizzato tra i cespugli ben nascosto c'era il suo killer pronto a sfondargli il cranio a tradimenti,di spalle.E già a tradimento,perché Ciro Maisto o mellon era diffidente come lo sono pochissime persone,non si fidava di nessuno e per giunta era sempre armato,difficile affrontarlo frontalmente senza il concreto rischio di beccarsi una pallottola.Ma era deciso,o almeno così avevano deciso il nuovo gruppo dirigente del clan di Lauro,che dopo la scissione portata avanti anche da parte degli ex amici della venella grassi ormai non si fidavano più di nessuno.Ciro Maisto era una di quelle persone che per il clan di Lauro non era più affidabile,e tramite Nunzio Talotti il reggente del clan Marco Di Lauro aveva dato il suo benestare nel massacrare o mellon.Quando nel 2008 Ciro Maisto venne ammazzato inquirenti e media avevano collocato quel barbaro omicidio nella guerra in atto tra i di Lauro e gli scissionisti,senza minimamente immaginare che tutto era stato organizzato dallo stesso clan di Lauro che riuscirono anche a depistare le indagini all'inizio.Oggi invece la verità e venuta a galla grazie alle dichiarazioni rese dal nuovo pentito del clan di Lauro Vincenzo lombardi che insieme a Carlo Capasso altro killer pentito dei di Lauro stanno confessando decine e decine di omicidi.La morte di Ciro Maisto avvenne senza neanche avvertire tutti gli altri affiliati dei di Lauro,infatti molti credevano che ad ammazzare o mellon erano stati gli scissionisti,senza immaginare che invece il movente e i killer erano proprio i loro stessi amici.A decidere l'eliminazione di Ciro Maisto furono Nunzio Talotti e un Certo papele,che in un primo momento avevano convocato Vincenzo lombardi per commettere l'omicidio,fu proprio Nunzio Talotti che in modo molto esplicito gli domando' se,se la sentiva a fare un pezzo per lui,accompagnando tale paroli con ampi gesti delle mani facendo poi il segno della pistola.Quando Vincenzo lombardi diede la sua disponibilità gli fu detto che lo avrebbero informato loro quando e dove procedere,cosa che non avvenne in quando poi successivamente o mellon venne ammazzato da Antonello Faiello ucciso a sua volta diversi mesi fa.Ritornando alle fasi dell'omicidio Ciro Maisto fu mandato a prendere con l'inganno dal duo migliore amico,girarono un Po per il rione dei fiori poi la moto si diresse nei pressi della villa comunale del rione dei fiori,Antonello Faiello era nascosto tra i cespugli impugnando una pistola

9x21 aspettando il momento propizio di prenderlo di spalle.Come convenuto con il complice la moto si fermo nei pressi di un bar,o mellon sedeva dietro,l'amico con la scusa di andare a fare la pipi' ferma la moto e si allontana rimanendo o mellon a guardi della moto.Frazioni di secondi,Antonello Faiello esce pian piano e si avvicina alle spalle di Ciro Maisto,gli punta la pistola dietro il cranio e fa fuoco diverse volte,scappa via mentre o mellon a terra in un lago di sangue ha il corpo convulso in tanti spasmi.Una morte violenta assurda e da vile,ci son voluti diversi anni,ma la verità e venuta fuori...

Vita criminale di Maurizio Prestieri

All'inizio si era pensato ha dividere gli affari senza spargimenti di sangue,parola di Maurizio Prestieri boss del rione monte rosa e alleato dei di Lauro,oggi uno dei collaboratori di giustizia più attendibili.Ecco come racconta uno spaccato della sua vita criminale,e le ragioni che hanno portato irrimediabilmente alla sanguinosa scissione all'interno del clan di Lauro.Il suo racconto inizia ritornando indietro con la memoria,quando il braccio destro di Paolo Di Lauro era il fratello Raffaele Prestieri,gestore anche di tutte le piazze di spaccio di scampia.Poi ancora ricordi su un dubbio che per tutta la vita la segnato nel più profondo del suo animo,la cattiveria e le gelosie che secondo lui i fratelli Raffaele,Antonio e Guido Abbinante hanno represso per anni con un abile doppio gioco nei confronti della famiglia prestieri.Infatti sempre secondo il suo racconto,quando nel 1994 Antonio Ruocco piombo' a capo di un gruppo di uomini nel bar fulmine a secondigliano,li presenti c'erano anche Antonio e Guido Abbinante a godersi la scena del massacro in cui perirono Raffaele e Rosario Prestieri insieme ad altre quattro persone.Ne uscirono illesi solo i fratelli abbinante,da allora Maurizio Prestieri vive con questo tarlo nel cervello chiedendosi ancora oggi perché e come mai non furono ammazzati a loro volta,visto che Antonio Ruocco li conosceva bene,sapeva che erano elementi importanti del clan.Un dubbio che ancora oggi sconvolge Maurizio Prestieri che si pone da anni la stessa domanda,erano loro i basisti?domanda che ancora oggi non gli ha permesso di darsi una risposta.Poi parla del rapporto di affetto che Paolo Di Lauro aveva

nei confronti di suo fratello Raffaele che con il passare del tempo ha riposto in lui.I viaggi

all'estero le donne e i fiumi di denaro perso al tavolo verde.Poi ricordi sempre più recenti fino alla distruttiva scissione che difatti ha squadernato gli assetti del clan con

arresti eccellenti e il formarsi di un nuovo clan,più spietato senza nessuno in grado di impartire una giusta lezione di vita che significa rispetto della vita e delle persone.Infatti secondo il racconto di Maurizio Prestieri,il clan degli scissionisti ammazzava per qualunque banalità senza ammettere ne regole ne ripensamenti.Poi racconta anche la strategia omicida degli scissionisti,massacrare sistematicamente anche nel corso degli anni tutti gli affiliati dei di Lauro che hanno commesso o collaborato negli agguati costati la vita ad affiliati e parenti degli stessi scissionisti.Mentre per tutti coloro che non avevano ne ammazzato ne collaborato co i killer,il perdono e la possibilità di entrare nel nuovo gruppo.Ma forse tra le tante dichiarazioni di Maurizio Prestieri che meritano di essere riportate ci sono quelle antecedenti alla faida,che fanno capire meglio al lettore,come e' nata l'idea di scindersi dai di Lauro e il perché.Secondo le sue dichiarazioni la decisione di creare un gruppo autonomo che non dipenda dai di Lauro nasce nelle varie aule dei tribunali sparsi un po' in tutta Italia,durante i processi,poche parole per decidere il corso della scissione possibilmente senza spargimenti di sangue.Infatti secondo Maurizio Prestieri i futuri capi scissionisti hanno ancora una grande considerazione e rispetto per Paolo Di Lauro,vogliono metterlo al corrente della loro decisione accompagnata anche dalle tante lamentele sulla gestione che il figlio Cosimo sta facendo all'interno del clan.Purtroppo Paolo Di Lauro e' latitante e loro sono detenuti,diventa difficilissimo concordare un summit con il ras,e in più il figlio Cosimino inizia a dubitare e sospettare qualcosa.La causa secondo Maurizio Prestieri sta nel fatto che Raffaele Amato e il cognato Cesare Pagano sono stati allontanati con la forza da Napoli,mandati in asilo forzato a Barcellona in Spagna.Tutto rimane momentaneamente come e',Cosimo Di Lauro e il nuovo capo e tutti recitano alla perfezione a farglielo credere.Ma viene sottovalutato e anche molto Cosimo Di Lauro,che secondo il racconto di Maurizio Prestieri aveva intuito tutto aspettando il momento opportuno per agire.L'occasione si presenta quando Luigi Aliberti alias o luongo capo piazza delle piazze di spaccio più remunerative inizia ha sgarrare mandando poco o niente al clan di Lauro che pretende ogni mese una tassa su ogni singola piazza di droga.Luigi Aliberti conosce bene cosa stanno preparando Arcangelo Abete,Gennaro Marino e i fratelli Notturno,e da la sua disponibilità a creare un gruppo autonomo.Dal carcere Rosario Pariante insieme a Raffaele Abbinante danno il loro consenso alla scissione,ma c'e un'altro fattore significativo raccontato da il pentito Carmine Cerrato,durante la festa di piazza che ogni anno si celebra miezz all'arc in onore di sant'Anna molti affiliati dei di Lauro si prendono gioco e offendono i parenti di Raffaele Amato e di suo cognato Cesare Pagano.Si racconta che perfino dal palco due comici si facevano beffa della fuga in Spagna die due cognati,troppo per Cesare Pagano che appena informato decide di rientrare in Italia e farla pagare ai di lauro.Nel frattempo Cosimo Di Lauro da mandato a Fulvio Montanino per assassinare Luigi Aliberti,erano anni che fulvietto aveva

In mente di ammazzare o luongo per prendere possesso di quasi tutte le piazze di spaccio di scampia,che divideva proprio con Aliberti.Fulvio Montanino non si lascia pregare e massacra Luigi Aliberti senza pietà,pochi mesi dopo Cesare Pagano fa il suo rientro in Italia e si rifugia in una villa di varcatura incominciando ha guadagnarsi i primi consensi di chi e' stufo di come Cosimino sta gestendo il clan.Sempre più giovani affluisce nel nuovo clan senza comunque abbandonare il clan di lauro aspettando che Cesare Pagano dia il via alla faida.Tra i tanti che acconsente alla scissione c'e anche Federico Bizzarro,infatti zio fester come viene chiamato e stufo di dividere gli introiti e assecondare a tutte le follie di Cosimino,decide così di cacciare via da melito il suo paese natale tutti gli appartenenti secondiglianesi dei di Lauro proclamandosi il nuovo ras.Sfortunatamente per lui la struttura degli scissionisti non si e' ancora deliniata e il neo gruppo può far ben poco per proteggerlo.Infatti viene massacrato da killer dei di Lauro che spacciandosi poliziotti lo raggiungono nella camera

dell'hotel villa giulia dove e' in compagnia della sua amante.Poche parole per farlo alzare dal letto e fallo avvicinare alla porta d'ingresso,ha sparare sono diverse pistole,lo massacrano senza pietà.Cosimo Di Lauro anche se per certo capisce cosa sta succedendo non cerca il massacro,vuole intimorire gli avversari e fargli abbandonare il folle progetto.Cesare Pagano Capisce che e' giunto il momento di reagire proponendo l'eliminazione fisica dei figli maggiorenni di Paolo Di Lauro,interviene Gennaro Marino che propone di ammazzare Fulvio Montanino per mandare un messaggio a Cosimino e forse anche al padre che sicuramente interverrà.Infatti Maurizio Prestieri spiega che l'idea degli scissionisti era quella di ammazzare un paio di affiliati dei di Lauro per far si che lo stesso Paolo intervenisse per discutere insieme come dividersi senza inutili spargimenti di sangue.Dunque Gennaro Marino propone di ammazzare montanino per mandare un messaggio al clan di lauro,l'idea sembra buona anche per il carisma e la posizione che lo stesso marino alias o mkey oppure o sicco ricopre all'interno del clan.Uomo di fatti non di parole,infatti il suo rione le case celesti diventano le basi per organizzare killer e motociclette per l'omicidio montanino.I fratelli Notturno insieme ad Arcangelo Abete lo stanno facendo pedinare da tempo e conoscono ogni minimo spostamento di Fulvio Montanino,infatti tramite loro infiltrati sono i primi a sapere che Fulvio Montanino insieme a suo zio Claudio Salerno sono stati invitati da Cosimo Di Lauro a un summit,sanno il percorso e l'ora esatta di come e dove colpire.E' il primo omicidio che gli scissionisti preparano in danno al clan di Lauro,per essere sicuri di non sbagliare si organizzano in dodici tra specchiettisti organizzatori e killer.Arcangelo Abete come unica clausola ha imposto che a sparare a Fulvio Montanino dovrà essere lui e basta,tanto e' l'odio che a nei confronti della vittma.Infatti quel pomeriggio Gennaro Marino e Massimiliano Cafasso sono su una Honda transalp mentre Ciro Mauriello e Arcangelo abete sono nascosti in un fiorino aspettando il momento opportuno per colpire,intanto tutto intorno sono dislocati gli altri killer pronti ad entrare in azione in caso qualcosa andasse storta.Corre Montanino mentre guida la sua fiammante Honda transalp con il vento che gli accarezza i capelli,suo zio si trova dietro,le braccia ben serrate intorno al busto di fulvietto che corre veloce come se avesse intuito qualcosa.Intanto in via Cupa dell'arco i killer sono pronti,appena

Montanino e suo zio imboccano la curva che li separa dalla villa bunker di Cosimo di Lauro,Abete e Mauriello entrano in azione,con il fiorino bloccano il passaggio della moto,interviene anche marino che scarica la sua pistola contro l'inerme Claudio Salerno senza colpire volutamente montanino che deve essere ucciso da abete.Abete infatti da un calcio alla moto e fa sbandare Fulvio che nel frattempo aveva tentato di fuggire,gli punta la pistola contro e con cattiveria scarica l'intero caricatore su quel corpo inerme.Questo e' il primo duplice omicidio commesso dagli scissionisti per dire basta al clan di Lauro,sia l'agguato che la ricostruzione sono ampiamente raccontate da Maurizio Prestieri e da Biagio Esposito che vanno anche oltre raccontando che il gruppo una volta massacrati montanino e suo zio,con gli abiti ancora intrisi di sangue si recarono a varcaturo a dare la lieta notizia a Cesare Pagano che con ansia aspettava l'esito della loro prima spedizione di morte.Poche ore dopo un gruppo di ragazzi fedeli al clan di Lauro si reca nelle case celesti in prossimità di una sala giochi sparando all'impazzata urlando slogan a favore dei di Lauro e dei loro affiliati.Nel periodo della sanguinosa faida tra i di Lauro e gli scissionisti,Maurizio Prestieri era detenuto,dal carcere ordina ai suoi nipoti reggenti del clan,di mettersi a disposizione di Cosimo di Lauro,fornendo uomini armi e supporto logistico al clan di Lauro.I Prestieri fanno sapere che si sono schierati al fianco dei di Lauro,per loro commettono anche alcuni omicidi,tuttavia questa alleanza termina quando Cosimino inizia a fare ammazzare donne e gente innocente che nulla a che vedere con la camorra.I nipoti fanno sapere allo zio detenuto che non intendono più seguire quella belva di Cosimino e Maurizio non può fare altro che acconsentire ricucendo lui dal carcere e i nipoti in libertà lo strappo con i suoi ex amici scissionisti.C'e anche un piccolo aneddoto che Maurizio Prestieri racconta quando era detenuto nel carcere calabrese insieme ad Enrico D'avanzo cognato di Paolo di Lauro e vero numero due del clan.Quando Enrico D'avanzo scopri' che anche i fratelli abbinante si erano buttati tra le braccia degli scissionisti,era in attesa di un processo nelle celle di transito del tribunale di Napoli.Poco dopo la custodia porto in cella di Enrico D'avanzo Antonio Abbinante,enricuccio gli mise le mani intorno al collo e se gli agenti di custodia non fossero intervenuti in tempo sicuramente enricuccio avrebbe strangolato abbinante.Questo episodio fa capire il clima di tensione che c'era dentro e fuori,poi la vittoria degli scissionisti e il patto con gli abbinante per sterminare tutti i Prestieri.Troppo per Maurizio che per preservare la sua vita e quella dei suoi familiari arriva a intraprendere una decisione estrema,collaborare con lo stato,in cambio protezione a lui e tutti i suoi familiari.Oggi per fortuna le cose si sono evolute in maniera diversa,tutti i capi sia dei di Lauro che degli scissionisti sono tutti reclusi in regime di carcere duro.Con i nuovi collaboratori che si aggiungono hai vecchi difficilmente si apriranno un giorno le porte del carcere per tutti i protagonisti di questa assurda guerra.Basti pensare a Gelsomina Verde e Carmela Attrice massacrate senza pietà,senza riguardo e senza più regole.Senza dimenticare Dario Scherillo che ancora oggi i familiari aspettano giustizia per uno stupido errore di queste belve imbottite di droga.Vittima innocente della camorra,vittima di una società atipica,rassegnata senza riguardi e senza più sogni.E Attilio Romano' altra giovane vittima innocente della camorra,per fortuna i suoi killer e mandanti sono stati condannati al carcere a vita.Questo blog non lucra ne inneggia la camorra,al contrario ne denuncia gli agguati i boss e le loro storie per informare le masse a stare lontani da questi farabutti.E quei poveri imprenditori strozzati sia dallo stato che dalla camorra,denunciate,non subite più soprusi,ribellatevi per rendere la nostra bella regione più viva più civile.Se pensiamo che grazie alla camorra e grazie al clan dei cadalesi i tumori sono raddoppiati in maniera allarmante,abbiamo liberato il nord e avvelenato il sud.Per una Campania libera dalle mafie e per una Napoli più civile diciamo no alla camorra.

k.o alla scissione

Una sentenza che mette

la parola fine ad una inchiesta mastodontica: “C3”, come il nome in

codice di Raffaele Amato. La particolarità fu che la sentenza di primo

grado fu emessa ad un anno esatto

dal blitz che azzerò i vertici del clan

degli scissionisti è arrivato il giorno

della sentenza. Ieri mattina il giudice della corte d’Appello ha emesso

la sentenza dopo una camera di consiglio durata alcune ore. Cinquantatrè le condanne, rispetto alle 46 di

primo grado per un totale di 484 anni di carcere rispetto ai 430 di primo grado. Un quadro accusatorio

sostanzialmente immodificato per

coloro i quali erano e sono, adesso

con sentenza, considerati i capi e

promotori di un clan che nel 2004 dichiarò guerra ai Di Lauro. Una cosca sanguinosa capeggiata da Raffaele Amato che ieri ha incassato 20

anni di reclusione e da Cesare Pagano, ex superlatitante che invece

ha scelto di essere processato con il

rito ordinario. Di “Cesarino” c’erano

sotto processo il fratello e le due sorelle le quali sono state condannate

ma a pene basse e con l’esclusione

del metodo mafioso ed hanno potuto beneficiare dell'indulto. Ma i boss

e i riciclatori non hanno avuto sconti: le intercettazioni telefoniche racchiuse in una maxiordinanza chiesta al gip dai pubblici ministeri Stefania Castaldi e Luigi Alberto Cannavale che si sono avvalsi dell'opera instancabile e preziose dei poliziotti della squadra Mobile di Napoli, dei carabinieri del Nucleo operativo e della compagnia di Castello di

Cisterna, dei finanzieri del Gruppo

tutela mercato capitali, sezione riciclaggio, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e gli atti di investigazione pura (indagini patrimoniali, pedinamenti) hanno “blindato” l’inchiesta. Era un rito abbreviato, un processo che si basava solo ed esclusivamente sugli atti portati dall’accusa e contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Senza ascoltare testimoni, parti lese, investigatori.

In cambio della riduzione di un terzo della pena e per questo il valore

delle condanne severe è raddoppiato come significato. Pochissime le

assoluzioni, una confermata in appello, per: Luana Campanile, difesa

dall’avvocato Antonio Salzano (richiesta 10 anni). I numeri di questo

processo parlano chiaro: i numeri

parlano chiaro. Ottocentoquarantacinque pagine di ordinanza di custodia cautelare nelle quali i pubblici ministeri Stefania Castaldi e Luigi Alberto Cannavale hanno ricostruito fin nei minimi dettagli il ruolo di ogni singolo associato alla cosca degli scissionisti. Tant’è che in

primo grado sono servite quattro

udienze per la lunga, complessa ed

articolata requisitoria culminata con

una richiesta di oltre 700 anni di carcere. Un lavoro quello dei pm antimafia durato mesi e mesi che li ha

visti impegnati giorni interi per decine e decine di ore. Dalle carte dell’inchiesta anche i retroscena sulla

fine della sanguinosa faida con l’arresto dei due protagonisti della guerra: Raffaele Amato e Cosimo Di Lauro. La cattura di Cosimo Di Lauro avvenne nella serata del 19 gennaio

2005 ad opera del carabinieri della

Sezione catturandi del nucleo operativo. Il boss fu stanato in un appartamento nel Rione dei fiori, il cosiddetto “Terzo mondo” di Secondigliano, roccaforte dei Di Lauro. La

cattura di Raffaele Amato, invece,

avvenne a Barcellona il 27 febbraio

2005 ad opera dei Ros di Napoli. Che

qualcosa di significativo dovesse accadere in conseguenza della cattura dei due capi fu confermato dalle

attività di indagine in corso attraverso cui si accertava l'intenzione

e, poi, l'effettivo ritorno sul territorio di Secondigliano di coloro i quali, avendo aderito alla scissione, avevano dovuto abbandonare le loro case requisite dai dilauriani. Tale rientro non poteva realizzarsi senza che

una tregua fosse stata concordata

con l’avverso clan Di Lauro.

Cosi' Di Lauro fece ritrattare un testimone

Una testimonianza importante, una ritrattazione a sorpresa e un giallo
che adesso potrebbe essere svelato in Corte d’Assise d’Appello dove a
fine mese si celebrerà il processo a carico di Luigi Buono, condannato
all’ergastolo per l’omicidio Nunzio Cangiano. Era il truce omicidio al parco acquatico Magic World e una delle fasi più cruente della cosidetta
“seconda faida di Scampia”. Ebbene uno dei killer, Carlo Capasso, diventato nel frattempo collaboratore di giustizia, ha raccontato ai pm della Dda un retroscena inquietante maturato nel corso del dibattimento.
Secondo il racconto del collaboratore di giustizia Marco Di Lauro, il superlatitante figlio di Ciruzzo “’o milionario” avrebbe ottenuto da Raffaele Amato la ritrattazione della supertestimone minorenne e di sua madre che aveva visto in faccia l’assassino. E così fu. In aula madre e figlio

furono reticenti ma secondo i giudici perché ebbero delle grosse pressioni dal clan, circostanza questa avvalorata adesso dal racconto di Capasso. Di Lauro inviò un suo emissario dal nemico Lelluccio “’a vicchiarella”, in piena faida, per chiedere la ritrattazione della donna che era
sua parente. Carlo Capasso non sa se sono stati versati dei soldi dalla cosca, non lo ricorda. A fine mese sarà comunque ascoltato dal pg in Corte d’Assise d’Appello dove Luigi Buono è assistito da Claudio Davino e
Diego Abate. I due testimoni si presentarono nell’ultimo giorno utile,
quello che doveva essere destinato alla pronuncia della sentenza dopo
la discussione degli avvocati difensori.
Madre e figlio erano i supertestimoni che la Procura aveva cercato per
mesi, per un anno intero, con la speranza di trovarli, con la speranza che
potessero confermare quanto avevano dichiarato poco dopo l’omicidio
di Nunzio Cangiano, assassinato al Magic World tre estati fa nella ultime fasi della faida di camorra tra il clan Di Lauro e gli scissionisti degli
Amato-Pagano. «Abbiamo saputo che ci cercate», dissero. La prima a
chiedere di parlare è stata la donna. «Non sapevo che mi cercassero. L'-
ho saputo da mio figlio che l'aveva letto da qualche parte sui giornali. Di
quel giorno io non ricordo nulla. So solo che ci furono degli spari e che
morì una persona. Poi sono andata in caserma ed ho firmato il verbale
ma non so cosa ci fosse scritto dentro. Io sono analfabeta». Accuse ovviamente gravissime: firmare un verbale senza rileggerlo e senza essere certi di quello che ci sia dentro è un reato. I militari non avrebbero
mai potuto commettere una leggerezza del genere. «Erano due, era alti
e robusti e sono convinto che fossero loro killer», disse il ragazzino. Ma
dopo una lunga camera di consiglio la sentenza: ergastolo. Questo perché secondo la Corte d’Assise i due supertestimoni sono stati minacciati dalla camorra per evitare che parlassero e che raccontassero quando avevano visto con i loro occhi quella drammatica mattina di agosto
quando tanta gente era andata per divertirsi e invece purtroppo furono
testimoni di un delitto atroce.

Luciano Sarno contro i giudici

Mai nessuno avrebbe scommesso un solo euro sulla determinazione di Luciano Sarno a sopportare il regime carcerario del 41bis nonostante tutti i suoi fratelli sono passati a collaborare con la giustizia.Una determinazione e una sopportazione che va oltre ogni logica visto che gli stessi fratelli lo hanno accusato di essere mandante ed esecutore materiale di 
decine di omicidi.Tutto era iniziato dall'arresto di Giuseppe Sarno che dopo solo alcuni mesi di carcere duro incomincio' a collaborare con la giustizia tirando in ballo la sua famiglia e i suoi fratelli, Vincenzo e Ciro Sarno che incominciarono anche loro una fitta collaborazione con la magistratura.Il clan sarno era considerato da tutti investigatori e magistrati come il piu' potente clan di Napoli,alle sue dipendenze aveva migliaia di affiliati,aveva il dominio assoluto su tutta Napoli citta' e nel corso del tempo aveva conquistato una buona fetta di tutta la provincia vesuviana.Poi i pentimenti a raffica e la confisca di bene da parte della magistratura che hanno indebolito notevolmente il clan,senza dimenticare i racconti fatti dai capi che hanno permesso di condannare all'ergastolo molti killer al soldo della cosca.L'unico che in alcun modo ha voluto collaborare con la giustizia e' stato Luciano Sarno che anzi ha reagito a muso duro al solo sentir pronunciare i nomi dei fratelli durante l'udienza a porte chiuse che si e' tenuta ieri per chiedere la sua estradizione cosa che il boss si e' opposto.Ha parlato in videoconferenza Luciano Sarno accusando i fratelli di essere dei falsi pentiti e di dire solo un sacco di sciocchezze.Nei fatti Luciano Sarno rispondendo a una domanda posta dal pubblico ministero Vincenzo D'onofrio sulle accuse mosse a suo carico dai fratelli che hanno accusato Luciano Sarno di essere uno degli organizzatori della strage del bar sayonara costata la vita a sette persone Luciano Sarno senza scomporsi e con aria pacata ha raccontato che quando fu commessa la strage lui era detenuto e ha aspramente criticato i fratelli definendoli pentiti ridicoli e bugiardi.Poi continuando la sua requisitoria si e' rivolto direttamente al pubblico ministero affermando che lui non intende collaborare ma anzi non ha niente di che pentirsi.E dire che la magistratura in tutti i modi ha tentato di farlo cedere mettendolo anche a confronto con i fratelli in varie aule di giustizia,ma Luciano Sarno e rimasto impassibile con sguardo rivolto altrove senza mai incrociare quello dei fratelli,e l'unico della famiglia sarno che non ha mai accettato di collaborare.Sta confinato 24ore al giorno in isolamento assoluto senza posta ne televisore ne giornali ma lui niente non cede,mentre i fratelli Ciro Vincenzo e Giuseppe si trovano in siti protetti serviti e riveriti ricevendo anche uno stipendi da collaboratori lui niente,e rimasto un vero irriducibile.

Cosi' Costanzo Apice uccise Bacioterracino

Era voltato di spalle in un sito riservato. Biagio Esposito, uno dei capi del
clan Amato-Pagano, è stato sentito ieri dalla quinta Corte d’Assise, dove è
testimone per il processo contro Costanzo Apice, accusato di essere l’assassino di Mariano Bacioterracino, il pregiudicato ammazzato nel clamoroso
agguato dei Vergini, ripreso dalle telecamere di sicurezza. Il video fece il giro d’Italia perché diffuso dalla Procura che voleva così stimolare chi aveva
vista a fare il nome dell’assassino. In realtà era un modo anche per provocare reazioni nelle decine di persone intercettate tra i quali, gli affiliati al clan
Sacco-Bocchetti di San Pietro a Patierno. Ieri Biagio Esposito, ha ricostruito
passaggio dopo passaggio le fasi che hanno portato a quell’omicidio, o meglio quello che era a sua conoscenza di quel delitto. Una storia fatta di messaggi in codici, di piaceri che un clan fa all’altro e di soldi che girano.
«Noi
del clan Amato-Pagano appoggiamo i Sacco-Bocchetti per fare l’omicidio
alla Sanità ch avvenne anche grazie ai Lo Russo. A sparare fu Costanzo
Apice ch partì, mentre le armi furono date da noi. Da Afragola arrivarono i
soldi. Apice per quel delitto ebbe solo cinquecento euro e si venne a lamentare da me. Io sapevo però che dai Moccia erano arrivati molti più soldi. Inoltre furono dati una volta da quelli di San Pietro e una volta da quelli di Afragola, tre mila euro alla famiglia di Costanzo». Poi Biagio Esposito
fa riferimento anche al video choc che ha fatto il
giro non solo di Italia ma
di tutto i network del
mondo. «Si vedeva che
era lui e noi eravamo dispiaciuti perché a Costanzo gli volevamo bene.
Lui era uno dei migliori killer del clan Sacco-Bocchetti ma non era stato attento. Anche i Moccia erano dispiaciuti perché quell’omicidio era stato fatto per loro e si chiedevano come fosse stato possibile che nessuno si era accorto di quelle telecamere di sorveglianza». Poi Biagio Esposito, che per
mesi è stato uno dei ras a capo del clan Amato-Pagano ha riferito del rapporto che aveva con Apice. «Mi voleva tanto bene che mi chiamava amore - ha riferito il collaboratore di giustizia -. Una volta lo vidi spacciare e mi
chiesi come mai quelli di San Pietro lo avessero messo a fare quel lavoro di
secondo livello dato che lui era molto bravo in alto. Mi disse che c’erano
dei problemi». Poi alla fine dell’interrogatorio, dopo il serrato esame del pm
Sergio Amato e il controesame degli avvocati Claudio Davino e Michele
Caiafa (dove per altro gli sono state contestate alcune circostanze che non
erano del tutto lineari con i verbali resi negli interrogatori), si è rivolto ad Apice dicendogli: «Costanzo apri gli occhi, il re pensa solo ai fatti suoi». La Corte a quel punto ha chiesto chi fosse il re e Esposito ha detto che riferiva alla camorra: «Sono tutti i boss di Napoli, pensano solo a loro».

Arrestato Ferdinando Emolo

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È stato arrestato ieri mattina, dopo tre mesi di latitanza. L’aria di Napoli non era più buona per lui, ma non per la faida di Scampia in cui
era stato coinvolto e i cui strascichi non si sa quando finiranno. Per Ferdinando Emolo di Secondigliano soprannominato “Nanduccio”, restare in città rappresentava un pericolo di altro genere: dal 7 gennaio scorso infatti le forze dell’ordine lo cercavano per arrestarlo in seguito a una

condanna per camorra. Deve scontare 7 anni e mezzo di reclusione, al
termine dei quali sarà sottoposto a libertà vigilata per altri 36 mesi. Ma
è una sentenza sopportabile, se si pensa che il 31enne fu tirato in ballo dai pentiti per aver fatto parte del gruppo di fuoco del clan Di Lauro
e che le inchieste a suo carico sono state più d’una. Accuse, come quella di aver partecipato all’omicidio di Biagio Migliaccio, dalle quali è
uscito assolto in primo e secondo grado nonostante la procura avesse
chiesto l’ergastolo. Sono stati i carabinieri del Ros (Reparto operativo
speciale) e del Reparto operativo di Napoli a rintracciare e a stringere
le manette intorno di Ferdinando Emolo, fin da giovane affiliato di spicco del clan Di Lauro. Il 7 gennaio inutilmente gli investigatori dell’Arma lo avevano cercato per notificargli il provvedimento restrittivo e
condurlo al carcere di Secondigliano, almeno per i primi tempi di detenzione. “Nanduccio” era già uccel di bosco, anche se la latitanza non
è durata. I militari d lo hanno individuato e catturato a Cisterna di Latina, in località Borgo Bainsizza, in un villino in compagnia di un 35 di
Ardea (in provincia di Roma), che è stato denunciato per favoreggiamento personale.
Al momento dell’arresto il ricercato non era armato: Non ha opposto resistenza né tentato di fuggire ma si è giocato l’ultima carta disperata
esibendo documenti contraffatti. Ma gli uomini dell’Arma lo conoscevano benissimo e con un sorrisetto gli hanno fatto che era giunto il momento di arrendersi. Allora Emolo ha risposto con una smorfia e ha consegnato i polsi. Per la carta d’identità falsa sarà denunciato a piede libero. “Nanduccio”, così come veniva indicato dai primi pentiti di Secondigliano”, è salito alla ribalta della cronaca a proposito di un terribile
“botta e risposta” tra i Di Lauro e gli “scissionisti”: prima l’omicidio di
Biagio Migliaccio, incensurato ma cugino del ras Giacomo Migliaccio
“’a femminella”, e poi per l’agguato mortale a Gennaro Emolo, padre di
Ferdinando. Una vendetta trasversale secondo gli investigatori.
Sull’omicidio Migliaccio ha parlato il collaboratore di giustizia Domenico
Rocco, le cui dichiarazioni non sono però servite a far condannare i due
imputati, Ferdinando Emolo e Antonio Mennetta. Il pentito aveva così
ricostruito il delitto: “io vi ho partecipato facendo da palo mentre in
quattro lo eseguivano: Domenico Girardi, “Er Nino”,  Ferdinando Emolo detto “Nanduccio” e Ugo De Lucia”. Ma nessuno dei quattro è stato
ritenuto colpevole.

L'arresto di Paolo Di Lauro

Paolo Di Lauro lo beccano in via Canonico Stornaiuolo, il 16 settembre 2005. Nascosto nella modesta casa di Fortunata Liguori, la donna di un affiliato di basso rango. Una casa anonima come quella in cui trascorreva la latitanza suo figlio Cosimo. Nella foresta di cemento è più facile mimetizzarsi, in case qualsiasi si vive senza facce e senza rumore. Un'assenza più totale quella urbana, più anonima del nascondersi in una botola o in un doppio fondo. Paolo Di Lauro era stato vicino all'arresto il giorno del suo compleanno. La sfida massima era tornare a casa a mangiare con la famiglia, mentre la polizia di mezza Europa lo inseguivano. Ma qualcuno lo avvertì in tempo. Quando i carabinieri entrarono nella villa di famiglia trovarono la tavola apparecchiata con il suo posto vuoto. Questa volta però i reparti speciali dei carabinieri, i ROS, vanno a colpo sicuro. Quando entrano in casa, i carabinieri sono agitatis-simi. Sono le quattro del mattino dopo un'intera notte di osservazione. Il boss però non reagisce, anzi li calma.

"Entrate... io sono calmo... non ci sono problemi."

Venti volanti scortano l'auto in cui viene fatto salire, più quattro lepri, le motociclette che anticipano il percorso, controllando che tutto sia tranquillo. Il corteo fugge, il boss è sul blindato. I percorsi per trasportarlo in caserma potevano essere tre. Attraversare via Capodimonte per poi sfrecciare lungo via Pessina e piazza Dante, oppure bloccare ogni accesso al corso Secondigliano e imboccare la tangenziale per dirigersi al Vomero. Nel caso di massimo pericolo avevano previsto di far atterrare un elicottero e trasportarlo per aria. Le lepri segnalano che lungo il percorso c'è un'auto sospetta. Tutti si aspettano un agguato. Ma è un falso allarme. Trasportano il boss alla caserma dei carabinieri in via Pastrengo, nel cuore di Napoli. L'elicottero si abbassa e la polvere e il terriccio dell'aiuola al centro della piazza iniziano ad agitarsi in un mulinello a mezz'aria pieno di buste di plastica, fazzo-lettini di carta, fogli di giornale. Un mulinello di spazzatura.

Non c'è alcun pericolo. Ma bisogna strillare l'arresto, mostrare che si è riusciti a prendere l'imprendibile, ad arrestare

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il boss. Quando arriva il carosello di blindati e volanti, e i carabinieri vedono che i giornalisti sono già presenti all'entrata della caserma, si siedono sulla portiera dell'auto a cavalcioni. Finestrini come sellini, impugnano vistosamente la pistola, hanno sul viso il passamontagna e indossano la pettorina dei carabinieri. Dopo l'arresto di Giovanni Brusca non c'è carabiniere e poliziotto che non voglia farsi riprendere in quella posizione. Lo sfogo per le nottate d'appostamenti, la soddisfazione per la preda catturata, la furbizia da ufficio stampa per occupare le prime pagine con certezza. Quando Paolo Di Lauro esce dalla caserma, non ha la spavalderia di suo figlio Cosimo, si piega in due, faccia per terra, lascia solo la pelata nuda a telecamere e fotografi. È forse soltanto un modo per tutelarsi. Farsi fotografare da centinaia di obiettivi da ogni angolatura, farsi riprendere da decine di telecamere avrebbe mostrato il suo volto a tutt'Italia, facendo magari denunciare a ignari vicini di casa di averlo visto, di essergli stati vicino. Meglio non agevolare le indagini, meglio non disvelare i propri percorsi clandestini. Ma qualcuno legge la sua testa bassa come semplice fastidio per flash e telecamere, il fastidio di essere ridotto a bestia da mostra.

Dopo alcuni giorni Paolo Di Lauro venne portato in tribunale, nell'aula 215. Presi posto tra il pubblico di parenti. L'unica parola che il boss pronunciò fu "presente". Tutto il resto lo articolò senza voce. Gesti, occhiolini, ammiccamenti, sorrisi, divengono la sintassi muta attraverso cui comunica dalla sua gabbia. Saluta, risponde, rassicura. Alle mie spalle prese posto un omone brizzolato. Paolo Di Lauro sembrava fissarmi, in realtà aveva intravisto l'uomo dietro me. Si guardarono per qualche secondo, poi il boss gli fece l'occhiolino.

Sembrava che dopo aver saputo la notizia dell'arresto molti fossero venuti a salutare il boss che per anni, a causa della latitanza, non avevano potuto incontrare. Paolo Di Lauro era in jeans e polo scura. Ai piedi le Paciotti, le scarpe che indossano tutti i dirigenti dei clan da queste parti. I secondini gli liberarono i polsi togliendogli i ceppi, le manette. Per lui un'u-

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nica gabbia. In aula entra tutto il gotha dei clan del nord di Napoli: Raffaele Abbinante, Enrico D'Avanzo, Giuseppe Cri-scuoio, Arcangelo Valentino, Maria Prestieri, Maurizio Pre-stieri, Salvatore Britti e Vincenzo Di Lauro. Uomini ed ex uomini del boss, ora divisi in due gabbie: fedeli e Spagnoli. Il più elegante è Prestieri, giacca blu e camicia oxford azzurra. E lui il primo che dal gabbione si avvicina al vetro di protezione che lo separa dal boss. Si salutano. Arriva anche Enrico D'Avanzo, riescono persino a bisbigliare qualcosa tra le fessure del vetro antiproiettile. Molti dirigenti non lo vedevano da anni. Suo figlio Vincenzo non lo incontra più da quando nel 2002 divenne latitante, rifugiandosi a Chivasso in Piemonte dove fu arrestato nel 2004.

Non staccai lo sguardo dal boss. Ogni gesto, ogni smorfia mi sembrava sufficiente per riempire intere pagine di interpretazioni, per fondare nuovi codici della grammatica dei gesti. Col figlio però avvenne un dialogo silenzioso strano. Vincenzo indicò con l'indice l'anulare della sua mano sinistra come per chiedere al padre: "La fede?". Il boss si passò le mani ai lati della testa, poi mimò un volante come se stesse guidando. Non riuscivo a decifrare bene i gesti. L'interpretazione che i giornali ne diedero fu che Vincenzo aveva chiesto al padre come mai fosse senza la fede e il padre gli avesse fatto capire che i carabinieri gli avevano tolto tutto l'oro. Dopo i gesti, gli ammiccamenti, i labiali veloci, gli occhiolini e le mani attaccate sul vetro blindato, Paolo Di Lauro si bloccò in un sorriso guardando il figlio. Si diedero un bacio attraverso il vetro. L'avvocato del boss al termine dell'udienza chiese di poter permettere un abbraccio tra i due. Venne concesso. Sette poliziotti lo presidiarono:

"Sei pallido" disse Vincenzo e il padre gli rispose fissandolo negli occhi: "Da molti anni questa faccia non vede il sole".

I latitanti arrivano spesso allo stremo delle forze prima di essere catturati. La fuga continua mostra l'impossibilità di godere della propria ricchezza e questo rende i boss ancora più in simbiosi con il proprio stato maggiore, che diviene l'unica

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vera misura del loro successo economico e sociale. I sistemi di protezione, la morbosa e ossessiva necessità di pianificare ogni passo, la parte maggiore del tempo rinchiusi in una stanza a moderare e coordinare gli affari e le imprese fanno vivere i boss in latitanza come ergastolani del proprio business. Una signora nell'aula del tribunale mi raccontò un episodio della latitanza di Di Lauro. D'aspetto poteva sembrare una professoressa, aveva una tintura più gialla che bionda, con evidente ricrescita alla scriminatura. Quando iniziò a parlare aveva una voce rauca e pesante. Raccontava di quando Paolo Di Lauro ancora girava per Secondigliano costretto a muoversi con strategie meticolose. Sembrava quasi fosse dispiaciuta per le privazioni del boss. Mi confidava che Di Lauro aveva cinque auto dello stesso colore, modello e targa. Le faceva partire tutte e cinque quando doveva spostarsi, ma ovviamente sedeva solo in una. Tutte e cinque avevano la scorta e nessuno dei suoi uomini sapeva con certezza se nell'auto ci fosse lui o meno. La macchina usciva dalla villa e loro si accodavano dietro per scortarla. Un modo sicuro per evitare tradimenti: fosse anche quello più immediato di segnalare che il boss si stava muovendo. La signora lo raccontava con un tono di profonda commiserazione per la sofferenza e la solitudine di un uomo sempre costretto a pensare di essere ammazzato. Dopo le tarantelle di gesti e abbracci, dopo i saluti e gli ammiccamenti dei personaggi appartenenti al potere più feroce di Napoli, il vetro blindato che separava il boss dagli altri era pieno di tracce di tutt'altro tipo: manate, strisce di grasso, ombre di labbra.

Dopo meno di ventiquattr'ore dall'arresto del boss, venne trovato alla rotonda di Arzano un ragazzo polacco che tremava come una foglia mentre cercava con difficoltà di buttare nella spazzatura un enorme fagotto. Il polacco era imbrattato di sangue e la paura rendeva difficile ogni suo gesto. Il fagotto era un corpo. Un corpo martoriato, torturato, sfigurato in modo talmente atroce che sembrava impos-

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sibile si potesse conciare così un corpo. Una mina fatta inghiottire a qualcuno e poi esplosa nello stomaco avrebbe fatto meno scempio. Il corpo era di Edoardo La Monica, ma non si distinguevano più i lineamenti. La faccia aveva soltanto le labbra, il resto era tutto sfondato. Il corpo pieno zeppo di buchi era ovunque incrostato di sangue. L'avevano legato e poi con una mazza chiodata seviziato lentamente, per ore. Ógni botta sul corpo era un foro, botte che non rompevano solo le ossa ma foravano la carne, chiodi che entravano e uscivano. Gli avevano tagliato le orecchie, mozzato la lingua, spaccato i polsi, cavato gli occhi con un cacciavite, da vivo, da sveglio, da cosciente. E poi per ucciderlo gli avevano sfondato la faccia con un martello e con un coltello inciso una croce sulle labbra. Il corpo doveva finire nella spazzatura per farlo ritrovare marcio, tra la monnezza in una discarica. Il messaggio scritto sulla carne viene da tutti decifrato con chiarezza, anche se non vi sono altre prove che quella tortura. Tagliate le orecchie con cui hai sentito dove il boss era nascosto, spezzati i polsi con cui hai mosso le mani per ricevere i soldi, cavati gli occhi con cui hai visto, tagliata la lingua con la quale hai parlato. La faccia sfondata che hai perso dinanzi al Sistema facendo quello che hai fatto. Sigillate le labbra con la croce: chiuse per sempre dalla fede che hai tradito. Edoardo La Monica era incensurato. Un cognome pesantissimo il suo, quello di una delle famiglie che avevano reso Secondigliano terra di camorra e miniera d'affari. La famiglia dove Paolo Di Lauro aveva mosso i primi passi. La morte di Edoardo La Monica somiglia a quella di Giulio Ruggiero. Entrambi dilaniati, torturati con meticolosità a poche ore dagli arresti dei boss. Scarnificati, pestati, squartati, scuoiati.


 

Il mistero dell'anello

In conferenza stampa gli ufficiali dei ROS dichiararono che l'arresto era avvenuto individuando la vivandiera che acquistava il pesce preferito da Di Lauro, la pezzogna. Il racconto sembrava sin troppo adatto a sgretolare l'immagine di un boss potentissimo, capace di muovere centinaia di sentinelle ma che infine si era fatto beccare per un peccato di gola. Neanche per un attimo a Secondigliano sembrò credibile la traccia dell'inseguimento della pezzogna. Molti indicavano piuttosto il SISDE come unico responsabile dell'arresto. Il SISDE era intervenuto, lo confermavano anche le forze dell'ordine, ma della sua presenza a Secondigliano era difficile, difficilissimo intuirne la presenza. La traccia di qualcosa che si avvicinasse molto all'ipotesi che seguivano molti cronisti, ossia che il SISDE avesse messo a stipendio diverse persone della zona in cambio di informazioni o di non-interferenza, l'avevo trovata in alcuni spezzoni di chiacchiere da bar. Uomini che prendendo il caffè o cappuccino con cornetto, pronunciavano frasi tipo:

"Visto che tu prendi i soldi da James Bond..." !

Mi capitò due volte, in quei giorni, di sentir nominare in modo furtivo o allusivo 007, un fatto troppo piccolo e risibile per trarne qualsiasi cosa, al tempo stesso troppo anomalo per passare inosservato.

La strategia dei servizi segreti nell'arresto di Di Lauro potrebbe essere stata quella di individuare i responsabili tecnici delle vedette, assoldarli così da poter far dislocare tutti i pali e le sentinelle in altre zone impedendo di dare allarme e far fuggire il boss. La famiglia di Edoardo La Monica smentisce ogni suo possibile coinvolgimento, affermando che il ragazzo non aveva mai fatto parte del Sistema, che aveva paura dei clan e dei loro affari. Forse ha pagato al posto di qualcun altro della sua famiglia, ma la chirurgica tortura sembra es-

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sere stata commissionata per venire ricevuta e non spedita attraverso il suo corpo a qualcun altro.

Un giorno vidi un gruppetto di persone non lontano da dove era stato ritrovato il corpo di Edoardo La Monica. Un ragazzo cominciò a indicare il proprio anulare e poi toccandosi la testa muoveva le labbra, senza emettere suono. Mi venne in mente subito, come un cerino acceso davanti alle palpebre, il gesto di Vincenzo Di Lauro nell'aula di tribunale, quel gesto strano, insolito, quel chieder come prima cosa, dopo anni che non vedeva il padre, dell'anello. L'anello, in napoletano "aniello". Un messaggio per indicare Aniello e l'anulare come fede. Quindi la fedeltà tradita, come se stesse segnalando il ceppo familiare del tradimento. Da dove era arrivata la responsabilità dell'arresto. Chi aveva parlato.

Aniello La Monica era il patriarca della famiglia, per anni nel quartiere hanno chiamato i La Monica gli "anielli" come i Gionta di Torre Annunziata venivano chiamati i "valentini" dal boss Valentino Gionta. Aniello La Monica, secondo le dichiarazioni del pentito Ruocco e di Luigi Giuliano, era stato fatto fuori proprio dal suo figlioccio Paolo Di Lauro. Certo è che gli uomini dei La Monica sono tutti nelle file dei Di Lauro. Ma questa atroce morte potrebbe essere la punizione per la vendetta di quella morte di vent'anni prima, una vendetta servita fredda, gelida, con una delazione più violenta di una raffica di colpi. Una memoria lunga, lunghissima. Una memoria che sembra condivisa dai clan che a Secondigliano si sono succeduti ai vertici del potere e dal quartiere stesso su cui regnano. Ma che resta fondata su voci, ipotesi e sospetti capaci forse di produrre effetti come un arresto clamoroso o un corpo martoriato, però mai depositarsi in verità. Una verità che dev'essere sempre ostinatamente interpretata, come un geroglifico che, ti insegnano, è meglio non decifrare.

Le rivelazioni di Pietro Esposito (o'kojak)

Un gruppo è nascosto nei pressi dell’altra abitazione di cui ha disponibilità Nunzia; vi sono poi le abitazioni ubicate nella zona del Buvero, presso la famiglia Sorrentino: si tratta di due abitazioni che sono ubicate in un palazzo; ancora, l’abitazione della suocera di Pasquale o’ Vichingo, ubicata nel rione Gescal; l’abitazione della suocera di Paolo De Lucia (famiglia Altamura). Ci sono altre case nel Terzo Mondo che non saprei indicare». Sono le 23 e 55 di una serata di fine novembre; nel carcere di Poggioreale ci sono il pm della Direzione distrettuale antimafia Giuseppe Corona, due agenti di polizia penitenziaria e due carabinieri del Reparto Operativo di Napoli. Hanno di fronte un detenuto, Pietro Esposito (arrestato due giorni prima per l’omicidio della giovane Gelsomina Verde), il quale sta snocciolando i luoghi dove i latitanti potrebbero trovare rifugio.

«Ho chiesto di parlare con lei - esordisce Esposito davanti al magistrato - perché voglio chiarire cosa è accaduto la sera dell’ omicidio e voglio parlare di alcuni fatti che si stanno verificando attualmente a Secondigliano. Rappresento che voglio essere protetto e che la protezione deve essere estesa anche alla mia convivente e ai miei figli». Si apre quella sera, nella saletta colloqui del carcere napoletano, il sipario sul clan Di Lauro: un teatro di morte, affari, sicari, rituali di malavita, boss, latitanti, summit, zone e capizona, donne del capo, accordi e tradimenti, droga. E soldi, soldi, soldi.

Le dichiarazioni di Esposito danno la possibilità agli inquirenti di intrecciare vicende personali, ricostruire fatti, capire l’organizzazione. Ma i carabinieri non arrivano impreparati all’appuntamento con le dichiarazioni del pentito. Già da tempo, infatti, tengono sotto controllo l’organizzazione criminale di Secondigliano. Per un curioso caso gli inquirenti, ancor prima che scoppiasse la faida tra i Di Lauro e gli scissionisti, stavano effettuando un’inchiesta su un giro di auto rubate e avevano sotto controllo alcuni gregari del clan. Da quella indagine, da quelle intercettazioni, avevano già capito che quei ladri d’auto, quegli specialisti nei cavalli di ritorno, non erano solo “semplici” ladri di periferia: c’era di più. E le dichiarazioni di Esposito confermavano quelle sensazioni.

Il pentito riempie pagine e pagine di verbali, racconta tutto quello che sa e anche quello che ha sentito dire: i carabinieri, intanto, piazzano cimici. Con le loro intercettazioni entrano nelle auto dei gregari, nelle case dei boss, raccolgono gli sms e provano a decifrarli, impiantano una microspia perfino in un televisore destinato a un covo di latitanti. Così, da un orecchio ascoltano Esposito e dall’altra si sintonizzano sulla vita quotidiana del clan. Il tutto, nel bel mezzo di una faida sanguinosa, che lascia decine di morti sul selciato. Alla fine, arriva il blitz. In due colpi, i carabinieri smantellano il clan Di Lauro. Prima arrestano una ventina di uomini di spicco, poi arrivano a mettere le mani su Cosimino, il rampollo di famiglia e capo sanguinario. Nelle carte di quegli arresti, una vera e propria saga di camorra, una sorta di romanzo popolare, un grande, a tratti terribile, racconto di che cos’è la camorra, oggi, a Napoli, nel cuore di una guerra. La Voce è in grado, in esclusiva, di ricostruire la tela di segreti del clan Di Lauro, cominciando dalla nascita di questa potente organizzazione criminale e finendo con il blitz che, alla fine di una minuziosa opera di investigazione e di intelligence dei carabinieri diretti dal generale Giuliani, ha assestato un colpo durissimo a capi e gregari.

COME NASCE UN CLAN

Paolo Di Lauro, 52 anni, latitante da nove, accusato di associazione camorristica e di omicidio, si forma alla scuola dei Nuvoletta di Marano. Proprio con il boss (in carcere) Angelo Nuvoletta e con i pezzi da novanta Antonio Ruocco (deceduto), Raffaele Abbinante (in carcere) e Ciro Cappuccio (all’ergastolo per l’uccisione di Giancarlo Siani), Di Lauro avrebbe preso parte al duplice omicidio di Vincenzo Pariota e Giuseppe Di Pietro. Sarebbe diventato così, in pieni anni Ottanta, quando la camorra napoletana è divisa tra la Nco di Cutolo e la Nuova famiglia di Nuvoletta e Bardellino, tra i luogotenenti più fidati dei maranesi; successivamente diventa il braccio destro di Michele D’Alessandro, il boss di Castellammare di Stabia, a cui offre la sua protezione per garantirne la latitanza. “Ciruzzo ‘o milionario” è un capo attento, cauto: cresciuto alla scuola mafiosa, a un passo dall’affiliazione alla cupola di Palermo, Di Lauro preferisce gli affari alle stragi, le alleanze alle guerre. Negli anni Novanta, infatti, divide il suo potere su Secondigliano con Gennaro Licciardi, detto “a scigna”. Quando Licciardi muore (nel carcere di Voghera), Di Lauro diventa il capo della camorra di Secondigliano ma cerca e trova ‘accordi’ con altri gruppi.

Le zone sono ripartire in maniera rigorosa e ordinata. La Masseria Cardone resta agli eredi del clan Licciardi, la zona di Miano, Piscinola, area Birra Peroni, Ice Snei e San Gaetano al clan Lo Russo; quella di Scampia, Vele, Terzo Mondo e rione Berlingieri (il cuore di Secondigliano) a Di Lauro e il rione Don Guanella al clan Bocchetti. Ciruzzo estende il suo potere anche in altre aree ma costruisce ovunque un gruppo di potere autonomo e organizzato: nel rione Monterosa colloca Raffaele Abbinante, di Marano; a San Pietro a Patierno, nella zona circumvallazione, ai confini con Mugnano, altri sui fidatissimi come Sacco, Prestieri, Grimaldi e Stabile.

I carabinieri del nucleo operativo di Napoli stanno provando a mettere le mani su Ciruzzo ‘o milionario da anni. Nel febbraio scorso, nel corso di un’inchiesta che ha viaggiato in tutto il nord Italia, ci sono arrivati ad un passo, riuscendo ad arrestare il primo figlio di Paolo, Vincenzo, fermato a Chivasso. Ma di lui nessuna traccia: un giorno viene dato per espatriato, forse in Spagna, a Malaga; un altro giorno è segnalato a Secondigliano o a Melito; un altro giorno ancora in Romagna, tra Ravenna e Riccione. Di certo, la sua latitanza è fatta di cautela e attenzione: non ha un cellulare e comunica all’esterno solo con bigliettini scritti a mano. Il suo covo è conosciuto solo ad un paio di fedelissimi e, probabilmente, ai suoi quattro figli prediletti: Vincenzo, appunto, Cosimino, 32 anni, che ha gestito il clan ed è finito in manette poche settimane fa, e i due minori Marco (25 anni, latitante) e Ciro (27 anni, arrestato il 7 dicembre scorso).

LA CATENA DI COMANDO

Il clan Di Lauro, prima della raffica di arresti che ne ha scompaginato la composizione, era organizzato con la classica struttura piramidale. Sulla punta più alta c’è Ciruzzo che, a differenza di quanto si dice, controlla ancora l’organizzazione dal suo nascondiglio. Sotto di lui, come capo sul territorio, c’era il figlio maggiore Vincenzo; poi Cosimino. Paolo, Vincenzo e Cosimo Di Lauro erano il cuore del clan, il cui interesse principale è il traffico e lo spaccio di droga, il racket e il reinvestimento in decine di attività turistiche, soprattutto alberghiere e prevalentemente all’estero. Subito sotto i tre, c’erano gli altri due figli, Marco e Ciro. Il primo era responsabile della sorveglianza armata nel rione: Marco reclutava personalmente le sentinelle, provvedeva a esaminarle e a vigilare sul loro lavoro. Ciro, invece, era il contabile, il responsabile economico, quello che divideva gli introiti e teneva i conti.

Una struttura di comando a cinque, dunque, rigorosamente familiare. Il boss e i suoi quattro figli. L’uomo di più stretta fiducia del clan era Giovanni Cortese, detto il ‘cavallaro’, 25 anni, noto alle forze dell’ordine per essere uno specialista nei furti di auto e nei “cavalli di ritorno”, arrestato alla fine di dicembre ad Angri. In realtà, dall’inchiesta, il ruolo di Cortese emerge per essere ben più importante. Il cavallaro, infatti, è il portavoce del clan, quello che porta gli ordini dai capi alla struttura. Il collaboratore più stretto di Cortese è Enrico D’Avanzo, detto ‘erricuccio’. Altro importante uomo di fiducia è Gino Petrone, una sorta di manager delle attività economiche illecite; con lui collabora Nanuccio La Monica. Questo team terrorizzava Secondigliano, con un feroce gruppo di fuoco e una capillare rete di fiancheggiatori. Nel manipolo di killer figuravano Emanuele D’Ambra, Ugo De Lucia, detto ‘Ugariello’, Nando Emolo, detto ‘o’ schizzato’, Antonio Ferrara, detto ‘o tavano’, Salvatore Tamburino, Salvatore Petriccione, Umberto La Monica, Antonio Mennetta. Al di sotto, i fiancheggiatori, cioè i capizona: Gennaro Aruta, Gennaro Marino (passato agli scissionisti), Ciro Saggese, Fulvio Montanino (ucciso in un agguato), Antonio Galeota, Giuseppe Prezioso (guardaspalle personale di Cosimo Di Lauro) e Costantino Sorrentino.

Alla base della piramide, la rete di trafficanti che facevano le puntate con l’estero, la rete di spacciatori, le sentinelle di quartiere. Una organizzazione che complessivamente contava su almeno 300 persone, tutte tenute a stipendio, con una contabilità capillare che non mancava un solo appuntamento. in tuta da killer Una struttura complessa, dunque, dove tutto era inserito in un ordine preciso: c’era il parco macchine e moto, affidato a due capizona; c’era l’armeria, nascosta e collegata a una rete di fabbri pronti a distruggere le armi appena usate per gli omicidi; c’era una rete logistica che consentiva ai killer di andare, subito dopo l’agguato, ad allenarsi in un regolare poligono di tiro dove venivano registrati gli ingressi, in modo da confondere le tracce di polvere da sparo e costruirsi un alibi per eventuali prove da stub. C’era addirittura una rete che forniva l’abbigliamento ai gruppi di fuoco: tute da ginnastica anonime e casco da motociclista integrale, da distruggere subito dopo. Un’organizzazione che non dà spazio a cedimenti e che, al minimo sospetto, inchioda il presunto traditore.

OMICIDIO IN DIRETTA

Ecco come il pentito Pietro Esposito racconta il clima nel quale il gruppo di fuoco si prepara ad un’azione di morte. «Quella mattina vidi nel rione che si stavano preparando due batterie di uomini. Vidi in particolare Ugo, Pasquale, Totore O Marinaro e suo nipote Nino, Peppe a Befana, un altro ragazzo che io chiamo Peppiniello e Nando. Io mi trovavo poco distante insieme ad un mio amico che si chiama Angioletto e ad altri due ragazzi incensurati. Capii subito che si stavano recando a commettere degli omicidi. Successivamente seppi che Nando, Peppeniello e Peppe ‘a Befana si erano fatti preventivamente dare una macchina da un ragazzo che fa i cavalli di ritorno che si chiama Giovanni Di Vaio, una Ford Fiesta di un colore che non ricordo. Con questa auto si recarono nel Terzo Mondo, nei pressi della Caserma, dove si trova un parcheggio, all’interno del quale c’era la vittima, nota con il soprannome di Zi’ Ciccio, che stava leggendo il giornale. Essi lo uccisero, utilizzando armi sulle quali non so dire nulla; poi lo caricarono sulla Fiesta e quindi lo portarono in una strada, dove poi diedero fuoco al suo corpo e all’auto. Dopo aver commesso il duplice omicidio se ne andarono a casa di Totore, che è ubicata a Melito, ma non so dove. In questa casa Luigi De Lucia portò dei vestiti di ricambio ad Ugo. Tale fatto mi venne detto proprio da lui, mentre si accingeva a portare i vestiti».

GUERRA AGLI SCISSIONISTI

La situazione nel quartiere diventa tesa quando esplode la guerra con gli scissionisti, detti anche “gli spagnoli”, un gruppo di ex affiliati al clan che decidono di mettersi in proprio. Si apre nell’organizzazione criminale una vera e propria frattura: comincia la conta. Chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Oggetto della contesa, il mercato della droga in gran parte dei rioni di riferimento. Un business miliardario che fa gola a troppi. A dare il via ai malesseri, sfociati nella scissione, è la decisione del capo Cosimino di svecchiare l’organizzazione: alcuni capizona, ritenuti inaffidabili perché avevano trattenuto quote indebite relative al traffico di stupefacenti, andavano sostituiti. Non tutti, però, l’hanno presa bene. Racconta il pentito Pietro Esposito che Cosimo «ha imposto a Melito la presenza di Maione Maurizio, che ha preso il posto di una persona arrestata per estorsione che si dovrebbe chiamare il cinese o il giapponese». Le dichiarazioni di Esposito consentono agli inquirenti di ricostruire il percorso della frattura. «La scissione si è avuta qualche tempo fa, quando i Di Lauro allontanarono dal clan O’ Lello, Biagino, Cesarino, Pierino, fratello di O’ Lello, ed altri, che si erano presi soldi che non dovevano intascare, ricavati dalla compravendita della droga, da loro introdotta dalla Spagna in Italia. Queste persone si unirono tra loro, anche insieme agli esponenti del gruppo di Mugnano, un tempo legati ai Di Lauro. Insieme agli scissionisti si unirono anche i Maranesi, ossia gli esponenti del gruppo insediato nel rione Monte Rosa e diretto da Papele e Marano. La guerra è iniziata con la morte di tale Giannino, se ricordo bene il nome, un ragazzo che venne ucciso in una Micra rossa. Questo omicidio è stato sempre considerato un fatto commesso dai Licciardi, ma in realtà è stato il primo delitto degli scissionisti. Altra persona uccisa da loro è stata Montanino, detto Fulvietto».

Il primo omicidio della faida è dunque del 24 marzo dello scorso anno, quando viene ucciso a Secondigliano Francesco Giannino, 23 anni, del clan Di Lauro. Un atto di guerra. I Di Lauro replicano mirando alto. Ad aprile, infatti, in un hotel sulla circumvallazione esterna viene crivellato di colpi Federico Bizzarro, capozona di Melito, ritenuto vicino agli scissionisti. La guerra è già cominciata ma fino a settembre la situazione rimane tutto sommato tranquilla. E’ con l’omicidio di Fulvio Montanino che si scatena definitivamente la rabbia dei Di Lauro, che fino a quel momento avevano risposto colpo su colpo agli attacchi degli scissionisti ma deciso comunque di tenere bassa la guardia e tentare una riconciliazione. Montanino viene ucciso il 28 ottobre, in via Limitone, insieme al nipote Claudio Salerno. Petrone e Tamburino raccolgono subito la notizia e sentono che qualcosa sta cambiando, che sta iniziando la guerra vera.

Petrone: A Fulvio, hanno ucciso a Fulvio

Tamburino: ahh … (incomprensibile)

Petrone: hai capito?

Tamburino: proprio le bombe, proprio, o no? Questo ha detto Cosimino “mo li mando a prendere a uno alla volta … li faccio… malamente” ha detto… tutti quanti…”

Petrone: quelli là… L’importante che ci sta la gente, che “faticano”

Tamburino: Gino, ce ne sono a milioni qua. Sono tutti guaglioni…tutti guaglioni… mo ti faccio vedere che combina quello.

Dalla morte di Montanino comincia un lungo e sanguinoso botta e risposta, con morti su morti: uno, due agguati al giorno, prima i gregari dei due clan, poi i parenti, l’incendio delle case, i pestaggi, i sospetti.

Tamburino: Cosimino è proprio freddo, ha detto “Mangiamo, beviamo, chiaviamo. Che dobbiamo fare… è successo andiamo avanti”

Petrone: ma io non ce la faccio a mangiare. Ho mangiato per mangiare Tamburino: pure il fatto di Massimino…

Petrone: povero guaglione però… (incomprensibile)… Massimino se ne voleva andare

Tamburino: siamo venuti a saperlo dopo. Però quando venimmo a sapere il fatto di Massimino rimasi… lo sai… Massimino pure era un bravo ragazzo. E’ morto proprio da scemo Massimino.

Petrone: Totore ma non ti fissare

Tamburino: e che ne sappiamo quanti di loro si sono buttati con quelli là… non lo sappiamo!

Petrone: Ah! quanti di loro si sono portati ? Ne sono rimasti un sacco di loro qua Totore! Non ho capito … a questi qua… non gli piacciono i Di Lauro ?

Tamburino: mò chissà come stanno festeggiando la gente. Io se fossi Cosimino sai che farei? Comincerei ad uccidere a tutti quanti. Pure se tenessi il dubbio… (incomprensibile)… a tutti quanti. Inizierei a togliere… hai capito! La prima melma da mezzo.

RAFFICHE DI MITRA

La guerra si fa cruenta e arrivano, nella rabbia e nella paura, anche le raffiche di mitra sui carabinieri. Proprio l’episodio dell’agguato a quattro militari in borghese, scambiati per killer mentre giravano in macchina nel quartiere chiamato Terzo mondo, fa capire ai luogotenenti del clan Di Lauro che quella guerra, per come è iniziata, porterà solo danni. L’autore dell’agguato è un gruppo di sentinelle. Il capo di questo gruppo, Giuseppe Grassi, 20 anni, si consegna ai carabinieri. Il tentativo del clan è di allentare la morsa delle forze dell’ordine sul quartiere.

GELSOMINA BRUCIATA

La tensione, già alle stelle nel rione, accende l’immaginario popolare e l’attenzione dei mass media quando a cadere sotto i colpi dei killer è una ragazza di vent’anni, incensurata, uccisa e data alle fiamme. Gelsomina Verde era una ragazza del quartiere; a Secondigliano la conoscevano tutti e viene fatta fuori perché, probabilmente in modo inconsapevole, era diventata una pedina tra le due fazioni in guerra. Gelsomina, infatti, avrebbe avuto relazioni sentimentali con alcuni esponenti del clan. La scissione ha messo uno contro l’altro i gregari delle due fazioni e Gelsomina si è ritrovata ad avere amici di qua e di là. Lei, in mezzo, ci ha rimesso la vita. A raccontare le ultime ore di Gelsomina è proprio il pentito Pietro Esposito, complice degli assassini ed ex fidanzato di Gelsomina. «Quella sera Mina e la sua amica vennero a chiamarmi verso le 22,40. Prima si affacciò mia moglie e poi mi affacciai io. A Mina, con la quale avevo molta intesa in quanto avevo avuto una relazione sentimentale, feci segno di allontanarsi in quanto l’avrei raggiunta dopo poco. Con una scusa, dissi alla mia convivente che uscivo e presi la macchina, la mia Fiat Punto Bianca. Quindi, mi misi dietro all’auto condotta da Mina. Ad un certo punto vidi che l’amica andò via con un ragazzo che era venuta a prenderla con uno scooter. Solo allora mi sono avvicinato ed ho iniziato a parlare con Mina senza che nessuno dei due sia sceso dall’auto. Dopo una decina di minuti, vennero su un ciclomotore tipo SH di colore nero De Lucia Ugo, il cui soprannome è Ugariello, Rinaldi Pasquale, detto Pasquale ‘O Vikingo, e De Lucia Luigi. Ugariello indossava un casco integrale». «Io, nonostante che il suo viso fosse del tutto coperto, lo riconobbi dalla fisionomia ed anche in un secondo momento, quando si avvicinò a me e mi parlò. Luigi e Pasquale con tono minaccioso entrarono nell’auto ove si trovava Mina, e dissero alla ragazza di spostarsi, visto che ella sedeva sul sedile del guidatore. Al suo posto si sedette Luigi, mentre Pasquale si sedette dietro. Ugo, come ho detto, si avvicinò a me e mi disse di tornare a casa. Ciò fece in quanto io protestai leggermente nei confronti dei tre ragazzi per l’atteggiamento che essi avevano assunto nei confronti di Mina e per il fatto che con il loro modo di fare l’avevano impaurita. Ugo, come ho detto, mi tranquillizzò, dicendomi che non le avrebbe fatto nulla e che dovevano solo chiederle dove si nascondessero i compagni, facendo riferimento a Saracino e agli altri ragazzi che lei normalmente frequentava». «Io tornai quindi a casa ma mentre stavo andando via vidi che alla 600 si accodò una Y10 di colore blu metallizzato, che era condotta da De Lucia Sergio, zio di Ugo e di Luigi (il cui padre si chiama Paolo). Essi lasciarono il luogo ove mi ero incontrato con Mina intorno alle 23,05 - 23,10. Preciso che quando vidi Pasquale prendere posto sul sedile di dietro mi accorsi chiaramente che egli aveva una pistola nascosta nel suo giubbotto, in quanto per sedersi dovette prenderla tra le mani e riporla tra le gambe. La pistola era di tipo semiautomatico, calibro 9 x 21 di colore cromato. Il giorno dopo mentre guardavo la televisione ebbi la notizia della morte di Mina». «Quasi contemporaneamente vennero a prendermi De Lucia Paolo e un altro ragazzo che non conoscevo. Mi portarono nello studio della casa dei De Lucia, ove vi erano una persona che io conosco con il soprannome di Totore O Marinaro, De Lucia Ugo, due ragazzi che non conoscevo, De Lucia Paolo, Nando, il ragazzo al quale recentemente hanno ucciso il padre, nonché altri due ragazzi che non conoscevo. Io ero dispiaciuto di quello che era accaduto ma Ugo mi disse che dovevo tranquillizzarmi in quanto Mina, a differenza di quello che credevo, era una poco di buono che andava con tutti e che la settimana prima era stata anche con lui. Aggiunse che aveva avuto l’ordine di ucciderla dall’alto, ossia dai Di Lauro. L’imbasciata era stata portata da Giovanni detto il “Cavallaro”, il quale in questo momento è diventato il portavoce dei Di Lauro. Il motivo dell’eliminazione di Mina consisteva nel fatto che lei parteggiava per gli scissionisti e che con la sua condotta stava mettendo a repentaglio la vita di alcuni esponenti del clan, fungendo da specchietto per le allodole. Aveva fatto ciò anche con il De Lucia Ugo, come mi disse lui in quell’occasione». L’omicidio di Gelsomina semina sconcerto in tutto il rione. Gli esponenti del clan si affrettano a tranquillizzare tutti, gettando discredito sulla reputazione di Gelsomina al fine di giustificare il loro gesto. Ecco come Gino Petrone racconta a una donna, Annalisa Marrazzo, salita a bordo della sua Renault Clio, l’omicidio di Gelsomina

Annalisa: Il fatto di quella ragazza…

Petrone: Eh, va bene, ma quello perché, la gente non lo sa… hai capito?

Annalisa: Pure io ho detto… io pure ho detto… no, un nesso ci deve stare… perché sennò è inutile!

Petrone: Quella ragazza lo sai che faceva? Girava lei, vedeva lei chi c’era… una volta che lei vedeva a qualcuno portava spia, tu permetti allora?

Annalisa: Eh…io questo…

Petrone: Questa poi scende… tu per esempio scendi, mi vedi, parli che io, guarda sta Gino là.

Annalisa: Eh, io questo è quello che ho detto, ho detto purtroppo io non penso che…

Petrone: Annalì… Annalisa: … sono così… cioè sono cose così, sono cose così sceme. Petrone: Scema… è normale.

Annalisa: Non è così che si uccide, così per uccidere o non… perché… i giornali non lo sanno… che si deve ancora scoprire. Capito?

Petrone: Può scoprire ciò che vuole

Annalisa: No. Nel senso che… perché è una santa, indubbiamente sarà pure una santa…

Petrone: Quella usciva con uno che se n’è andato con gli scissionisti e usciva pure con Ugariello, con due di loro usciva!

Annalisa: E….

Petrone: Hai capito che voleva fare? Voleva chiamare Ugariello… Amore mio qua è là

Annalisa: Mammina quando ha sentito il fatto di quella ragazza… mamma mia… disse prenditi le cose e vattene.

Petrone: Vabbè, ma tua madre un sacco di cose non le capisce, cioè perché non le sa proprio.

Annalisa: Statti attenta a chi ti dà il passaggio…

Petrone: Ma tua madre non lo sapeva che quella ragazza puzza, puzzava anzi.

Annalisa: Voglio dire… ma tutti quanti ne parlavano di quello che hanno detto tutti quanti… Oh, povera ragazza poi, all’inizio, poi ti metti in un angolo…

Petrone: Perché il telegiornale, all’improvviso… “uccisa una ragazza di 22 anni che faceva volontariato”…

Annalisa: Disperazione della madre… volontariato…

Petrone: Dissi io, e che hanno combinato questi qua? Quello il telegiornale fa vedere quello che vuole…

Intanto la faida continua. Dopo Gelsomina tocca ad altre decine di persone mentre i carabinieri, raccolta tutta la mole di materiale, decidono di intervenire. All’alba del 7 dicembre, mentre centinaia di abitanti del Terzo mondo scendono in strada nel tentativo di bloccare il blitz, i militari del generale Giuliani mettono le mani su gran parte dei protagonisti del clan Di Lauro. Ne arrestano 52. Qualcuno rimane fuori e viene preso dopo. A fine dicembre cade Giovanni Cortese, il ‘cavallaro’. E poche settimane fa Cosimino, il capo dal sangue freddo. Ma nemmeno questi arresti hanno fermato la guerra. E meno che mai, ovviamente, la camorra.

La paura per gli equilibri

LA casa nel cuore del rione dei Fiori risulta disabitata. Le porte sono chiuse a doppia mandata. Ma c´è appena stato un banchetto con sette coperti, forse un brindisi della camorra. Oppure un festino - sospettano gli investigatori - per celebrare gli ultimi morti ammazzati di Napoli Nord. I vigili del fuoco sono costretti a entrare da una finestra, trovano quel che resta di una cena dalle numerose portate. Ci sono sei bottiglie di vino. I carabinieri raccolgono impronte, indagano sui resti. Il festino è avvenuto nelle ultime 24, 36 ore. Dopo l´omicidio del capo piazza della droga nel territorio del clan Di Lauro, prima di quello di Lucio De Lucia.Anche stavolta il blitz delle forze dell´ordine tra Secondigliano e Scampia riserva sorprese, il giorno dopo il delitto eccellente del padre di Ugo De Lucia, assassino - durante la faida di Scampia - della ventenne Gelsomina Verde. Duecento tra carabinieri e poliziotti, per abbattere cancelli abusivi, controllare auto, fare perquisizioni. Mentre nel territorio dell´illegalità la polizia del vice questore Luciano Nigro controlla undici motorini ed è costretta a sequestrane dieci, dietro un cancello abusivo in via Miracolo a Milano viene trovato l´ufficio dello spacciatore: tavolino con thermos del caffè e calcolatrice per le dosi vendute e la paga ai pusher. Fermata una donna incinta di sette mesi mentre spaccia droga. Le strade degli ultimi delitti di camorra sono deserte. Quando le duecento divise arrivano non c´è un´anima in strada. Neppure nella piazza della droga di via Misteri di Parigi, dove lo scorso 14 marzo erano stati ammazzati il capo piazza Giuseppe Pica (imparentato con il clan Prestieri) e il suo tuttofare Franco Cardillo (amico d´infanzia di Cosimo Di Lauro). Lì, dal giorno del duplice omicidio, non si spaccia più. L´erede di Pica non era stato ancora designato da De Lucia. Blitz, morti ammazzati, un alto rischio che riesploda la faida tra Di Lauro e "scissionisti", temono gli investigatori. Tasselli inquietanti da mettere nel mosaico. Mercoledì sera viene ucciso Lucio De Lucia, sospettato di aver assassinato Pica e Cardillo che stavano per passare con gli scissionisti. Ma chi ha ucciso De Lucia? I Di Lauro? Difficile. Una pulizia interna di questo livello provocherebbe il pentimento di suo figlio Ugo De Lucia, il killer del clan che avrebbe molte cose da raccontare. Gli scissionisti? Molto probabile, invece. Stavano per comprare il più importante capo piazza della droga e l´hanno visto morire sotto i loro occhi. Venti di guerra a tre anni dall´inizio della prima faida. Molte armi in circolazione, come quelle trovate dai carabinieri proprio ieri: due mitragliette e una pistola chiuse in una cassaforte ricavata nel vano ascensore di un palazzo in via Janfolla a Miano. Da una parte l´esercito (ridotto) del latitante Vincenzo Di Lauro, figlio del boss Paolo, dall´altra gli scissionisti di Raffaele Amato. I Di Lauro che potrebbero voler vendicare la morte di De Lucia, anche se non si esclude l´ipotesi che quest´ultimo sia stato ammazzato per una vendetta trasversale contro il figlio killer. Atmosfera cupa mentre il patto per la sicurezza fa un passo avanti. Arrivano i cinquanta motociclisti del neonato Reparto intervento polizia stradale del generale Ciro Nobile. Pattuglieranno notte e giorno la tangenziale, l´asse mediano, i raccordi autostradali. «Sono i nostri Chips - dice il prefetto Alessandro Pansa - Questa è un´altra tappa verso la città sicura. Stiamo contendendo giorno per giorno i territori ai clan cercando di riconquistarli».

Massacrato Giuseppe Pezzella

Anche nel giorno di Natale non si ferma la sanguinosa guerra tra i clan camorristici in corso nel Napoletano. Un uomo, Giuseppe Pezzella, di 35 anni, è stato ucciso a Casavatore, alle porte di Napoli. Pur essendo noto alle forze dell'ordine solo per un precedente reato di inquinamento di acque, era ritenuto vicino agli scissionisti, il gruppo che si oppone a quello del boss Paolo Di Lauro nel controllo dello spaccio di droga nel quartiere Secondigliano. Pezzella, a bordo della sua Alfa 33, aveva appena parcheggiato nei pressi di un bar in Via Morelli, quando è stato avvicinato da due killer giunti sul posto a bordo di una motocicletta. I sicari gli hanno sparato numerosi colpi di pistola, mentre Pezzella tentava di entrare nel bar per trovare un riparo. L'uomo è morto all'istante, mentre gli assassini sono fuggiti. Sul posto sono poi giunti i carabinieri il cui intervento era stato richiesto con una telefonata anonima. Ma i sanitari non hanno potuto far nulla per Pezzella che, al loro arrivo, era già morto. (25 dicembre 2004)

Scompaiono 40 pregiudicati da scampia...

E' sempre guerra aperta tra i clan camorristici, tra gli affiliati del boss Paolo Di Lauro e gli scissionisti. Ieri notte a Scampia, il quartiere di Napoli dove infuria la battaglia, ignoti hanno appiccato un incendio in una casa disabitata in via Fratelli Cervi. La proprietaria era andata via dopo lo scoppio della faida. Oggi le forze dell'ordine rivelano una realtà allarmante: almeno 40 tra pregiudicati, sorvegliati speciali e sottoposti a misure restrittive, sono scomparsi da Scampia, per paura di essere coinvolti nella faida tra clan. Non sono solo i pregiudicati a scappare e secondo gli inquirenti c'è un numero alto, non quantificabile, di persone che lasciano le proprie abitazioni, per il timore di essere coinvolte, in maniera indiretta, nella spirale di sangue. L'incendio di ieri notte è un esempio di quel che teme la gente scappata da Scampia. Le fiamme sono divampate dal portone, che era stato cosparso di benzina. I vigili del fuoco sono arrivati subito e hanno evitato che l'incendio si propagasse a tutto l'edificio, che era disabitato: la titolare dell'appartamento e i suoi familiari si erano allontanati da tempo, probabilmente temendo ritorsioni. Le voci del quartiere riferiscono che la donna potrebbe essere stata considerata, indirettamente, vicina a qualche esponente degli scissionisti, ma ancora non c'è una conferma ufficiale da parte degli investigatori. In ogni caso, lei come tanti altri, aveva deciso di andare via. Come succede spesso da che è cominciata la guerra tra clan, le forze dell'ordine hanno perduto il controllo anche dei sorvegliati.

Gli agenti del commissariato di polizia effettuano come sempre i controlli nelle case dei malavitosi, ma non trovano più nessuno. Si vive nella paura a Scampia: aver scambiato qualche parola con qualcuno finito nel mirino degli avversari, basta ad essere ritenuti affiliati all'una o all'altra fazione ed essere in pericolo di vita.

La strage evitata

La sorveglianza disposta dalla polizia ha impedito che i funerali della mamma di un camorrista si trasformassero in un agguato. Lo si scopre leggendo gli atti dell'inchiesta che ha portato al blitz di ieri contro i clan di Scampia. Nel decreto di fermo disposto dai magistrati della Divisione distrettuale antimafia viene citato infatti "un evento particolare che documenta il cinismo del gruppo di Rosario Fusco". La vicenda ricostruita dai pubblici ministeri risale al 6 aprile 2004 e si svolge a Melito, comune dell'hinterland settentrionale napoletano. "La madre di Federico Bizzarro (pregiudicato che sarà anch'egli vittima della faida, ndr) muore per cause naturali. La notizia viene accolta con gioia da tutti gli affiliati all'associazione di Rosario 'o coreano, e non solo per la soddisfazione che procura la sofferenza del nemico, ma perché l'episodio potrà essere volto a favore del gruppo per procedere all'omicidio progettato", scrivono i magistrati nel documento. I pm a conferma della loro ricostruzione citano una conversazione telefonica tra il boss Fusco e un suo uomo, Fortunato Scognamiglio, entrambi colpiti dal decreto di fermo. I due parlano dell'esito di un primo sopralluogo eseguito nei pressi dell'abitazione della mamma di Bizarro. "Stamattina ho mandato la compagna mia a vedere, c'erano tutti i parenti a piangere", racconta Scognamiglio al suo capo. "La predisposizione di un servizio da parte della polizia di Stato - scrivono i magistrati napoletani - evita il peggio". Uccidere Bizzarro in occasione dei funerali della mamma si rivela troppo rischioso e inoltre il boss rivale, intuito il pericolo, non si fa vedere alla cerimonia.

Il dettaglio dell'agguato pensato e poi abortito per gli inquirenti rappresenta un importante punto a favore. Non solo, ovviamente, per il nuovo bagno di sangue evitato, ma anche perché dimostra che malgrado le difficoltà il controllo del territorio è possibile. "Non e' facile operare in quei quartieri - ha spiegato il questore di Napoli Malvano - perché, per come sono fatti, è facile sfuggire ai controlli". (8 dicembre 2004)

L'arresto di lucio de lucia

Lucio De Lucia, di 49 anni, boss latitante del clan Di Lauro, è stato arrestato dai carabinieri del comando provinciale di Napoli a Melito, un comune confinante con il quartiere Secondigliano. L'uomo - che svolgeva in particolare la sua attività nel rione Perrone - è stato sorpreso dai militari della compagnia di Giugliano in Campania, insieme con la convivente, Vincenza Trematerra, nell'abitazione di una donna disoccupata di 34 anni che lo nascondeva da alcuni giorni. In cambio del rifugio il camorrista avrebbe pagato una specie di retta alla donna, che pare si trovasse in gravi difficoltà economiche. De Lucia è il padre di Ugo e lo zio di Luigi, due elementi di spicco del clan, arrestati due giorni da nell'operazione, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, che ha portato complessivamente al fermo di 52 persone. Era latitante dal giugno 2003. Deve scontare tre anni di reclusione per una tentata estorsione commessa negli anni '90, violazione della sorveglianza speciale ed evasione. Intanto la faida che vede contrapposti i clan di Secondigliano non conosce tregua. Un villino di proprietà di Gennaro Marino, esponente di spicco del gruppo degli 'scissionisti' rivale del clan Di Lauro, è stato dato alle fiamme. La casa, un edificio in legno in stile montanaro fiancheggiato da una piscina, era disabitata in quanto Marino è in carcere dallo scorso 25 novembre. L'abitazione si trova alla quinta Traversa Limitone di Arzano, nei pressi del cosiddetto 'Terzo mondo', la zona teatro della faida di camorra. Sconosciuti hanno divelto una finestra del villino e hanno versato all'interno benzina a fiumi. Quando è stato appiccato il fuoco, si è determinato all'interno dell'appartamento un effetto di compressione dei gas che ha provocato uno scoppio fortissimo e poi un inferno di fiamme.

Gennaro Marino, insieme con Vincenzo Pariante ed Arcangelo Abete (anch'egli arrestato, insieme con Marino, nel corso del blitz della polizia del 25 novembre scorso), è considerato uno dei fondatori del clan degli 'scissionisti', definiti anche "Spagnoli" per la fuga in Spagna di Raffaele Amato, ex luogotenente di Paolo di Lauro, ritenuto il capo del gruppo. (9 dicembre 2004)

La nuova famiglia

Il cartello denominato Nuova Famiglia nacque verso la fine degli anni Settanta per contrastare la NCO di Raffaele Cutolo. La nascita ufficiale del cartello è datata otto dicembre 1978. Un patto tra famiglie. Nella riunione di quel giorno, ci sono i Giuliano di Forcella, i Vollaro, la famiglia Zaza. Sono i promotori. La loro sarà un’alleanza temporanea, per affrontare Cutolo. Nessun disegno accentratore di camorra unitaria. Le famiglie dovranno restare sempre separate, con accordi che ne delimitano ambiti e prerogative autonome. Per ora, c’è un obiettivo comune: la guerra alla NCO.

Ecco come il documento trovato dai carabinieri ricorda quella nascita: «Nel lontano 1978, quando si formò l’onorata fratellanza, giurando fedeltà a nome della santissima Immacolata, giovani onorati si unirono per onorare la madre terra e vendicare il loro sangue. Io, fratello invisibile, sovrano alle onorate famiglie di fratellanza, con mio manto d’onore, stima e fedeltà vi copro e vi guido lungo quella strada angusta e stretta dove forse molto sangue si verserà, ma con infinita dignità. Viva l’omertà!»

Anche per la Nuova Famiglia, ci sono gradi gerarchici, chiamati «rialzi», rituali di affiliazione, anche un giuramento del camorrista. Nomi diversi, ma la sostanza è la stessa. Tra Nco e Nf nessuna differenza.

Per la Nuova Famiglia, l’affiliazione viene definita la «copiata». Omertà, punizione dei traditori, rigida selezione per l’affiliazione: le regole sono sempre le stesse. In quattro punti, le diverse trasgressioni: trascuranza in bene, trascuranza in male, tragedia, infamità. Punizioni graduali, fino ad arrivare alla morte dell’affiliato o di membri della sua famiglia. Un tribunale. Proprio come quello della camorra ottocentesca, dove regnava il diritto della grande mamma. Si legge ancora nei documenti sui rituali della Nuova Famiglia: «Il corpo dell’infame ucciso è preferibile farlo scomparire, poiché puzza di tragedia e di infamità».

Sulla base della Nuova Famiglia, nel 1992 Alfieri, uno dei leader storici del cartello anti-cutoliano, tentò di costruire un’organizzazione unitaria, secondo lo schema siciliano, chiamata significativamente Nuova Mafia Campana. Tutti gli esperimenti sono cessati dopo pochi anni.

Spiega la commissione anti-mafia : “La Nco è finita nel 1983, per l’indebolirsi delle alleanze politiche, la riduzione delle fonti di finanziamento ed i colpi ricevuti dagli avversari. La Nuova Famiglia cessò nello stesso periodo per il venir meno della ragione dell’alleanza dopo la sconfitta di Cutolo. La Nuova Mafia Campana fu più un’aspirazione che una realizzazione”.

Raffaele Cutolo

Raffaele Cutolo è nato ad Ottaviano in provincia di Napoli il 20 dicembre 1941. E’ considerato l’uomo più potente e carismatico nella storia della criminalità campana. Un tempo a capo di un esercito di settemila uomini, Cutolo ha sulle spalle 43 anni di carcere (spezzati da due brevi latitanze) ed è in totale isolamento dal 1982.

La "carriera"

La sua lunga storia criminale sarebbe iniziata nel 1963 con l’omicidio di un ragazzo del suo stesso paese, che avrebbe insultato sua sorella Rosetta durante un litigio. Per questo reato Cutolo fu condannato in appello a 24 anni di reclusione. In seguito, avendo presentato ricorso alla Corte di Cassazione, fu scarcerato per decorrenza dei termini, restando però in attesa di giudizio.

All’inizio degli anni ‘70 divenne un piccolo capetto della Camorra, dedito al contrabbando di sigarette ed al traffico di droga (sopratutto cocaina). In questo periodo, iniziò il percorso che lo avrebbe portato, nel giro di una decina d’anni, a diventare il numero uno della Mafia campana.

Gli fu attribuito il soprannome di “‘O professore” (secondo alcuni perché indossava gli occhiali, secondo altre versioni, invece, perché era uno dei pochi del suo ambiente che sapesse leggere e scrivere); forte del fresco titolo, ebbe l’intuizione di riunire tutte le famiglie della camorra napoletana per costituirne una potente organizzazione in grado di competere con la mafia siciliana.

Il salto di qualità

Nel 1970 gli fu confermata la condanna per l’omicidio del ragazzo di Ottaviano e Cutolo si diede alla latitanza. Restò in libertà per un anno, ma fu arrestato dopo un conflitto a fuoco con i carabinieri a Palma Campania e successivamente incarcerato a Poggioreale. Fu proprio nel carcere che Cutolo reclutò gran parte del suo esercito, che in breve tempo raggiunse le 5000 unità.

Nacque così la “Nuova Camorra Organizzata” (NCO): un’organizzazione a metà tra la vecchia camorra di fine ‘800 ed un’istituzione militare. Inventò - secondo alcuni resoconti - anche un rituale di iniziazione, per il quale i nuovi adepti dovevano giurare fedeltà ripetendo un testo vagamente ispirato, che veniva reso “sacro” con l’ingestione di una goccia di sangue dal polso di un altro affiliato.

Più tardi i pentiti riferono agli inquirenti che all’interno dell’organizzazione vi era un vero e proprio culto per “Il Sommo” (anche soprannominato “Vangelo” e “San Francesco”); i proventi di un qualunque “lavoro” (attività illegale) dovevano essere suddivisi tra gli autori, Cutolo stesso, ed una “cassa comune” destinata al mantenimento delle famiglie dei carcerati ed al pagamento degli studi dei loro figli più promettenti.

La famiglia di Cutolo, spinta dal bisogno e dalla sobrietà, comprò un castello (composto da 350 stanze) ad Ottaviano, per una spesa di diversi miliardi di lire dell’epoca, presto adibito a quartier generale della NCO, che Cutolo provvedeva a dirigere direttamente dalle carceri di Poggioreale e di Ascoli Piceno. In tutte le carceri in cui fu trasferito, Cutolo condusse sempre una vita molto agiata: si è sostenuto che la sua cella di Poggioreale avesse addirittura la moquette ed un prestigioso quadro alla parete.

Carcerazione virtuale

A rappresentare Cutolo fuori dal carcere restavano i suoi fidi luogotenenti: la sorella Rosetta (che ufficialmente è ricamatrice di professione, ma che secondo le sentenze che in seguito la condannarono sarebbe a tutti gli effetti un vero e proprio boss della camorra), Corrado Iacolare e Vincenzo Casillo (detto o’ nirone).

Quando ebbe bisogno di maggiore libertà di movimento, Cutolo si fece spostare al manicomio giudiziario di Aversa, grazie a perizie (suppostamente compiacenti) dello psichiatra forense Aldo Semerari (personaggio alquanto misterioso che si dice fosse legato ai servizi segreti e che fu poi coinvolto nelle indagini per la strage della stazione di Bologna).

Il 5 febbraio 1978, una carica di tritolo fece saltare il muro di cinta dell’istituto di Aversa e Cutolo scavalcando le macerie riuscì a fuggire. Restò in libertà per un altro anno, affinando la densa frequentazione di colui che avrebbe eletto a suo scherano più fidato, Pasquale Barra, significativamente detto “‘o animale”. Il 15 maggio 1979 i Carabinieri trovarono il boss in un cascinale-bunker di Albanella e lo arrestarono. Rispedito a Poggioreale, Cutolo continuò a comandare anche dal carcere, procurando permessi ai suoi uomini di fiducia e comunicando quasi liberamente con l’esterno. La sua organizzazione sviluppava intanto i suoi interessi in molti settori: gioco d’azzardo, lotto nero, totonero, spaccio di droga, contrabbando di armi e sigarette, rapine, estorsioni, tangenti, truffe sui fondi CEE, biglietti falsi per lo stadio, furto e ricettazione, usura.

Né con lo stato, né con le BR; forse...

L’omicidio (il 14 aprile 1981) del direttore del carcere di Poggioreale, Giuseppe Salvia, che era stato schiaffeggiato e minacciato di morte in carcere dallo stesso Cutolo, fu moralmente attribuito al camorrista, che se ne suppone mandante. Poco dopo iniziò un rapporto di “collaborazione” tra Cutolo e lo Stato. Come sarà provato dalle indagini, Cutolo ricevette in carcere visite di importanti uomini di stato (ad esempio Flaminio Piccoli, Vincenzo Scotti ed Antonio Gava) e dei servizi segreti (prima del SISDE, poi, improvvisamente, avvicendati da quelli del SISMI). Sarebbe per effetto di un suo misterioso intervento che fu liberato l’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo, che si trovava in località ignota, essendo stato rapito dalle Brigate Rosse di Giovanni Senzani.

Su eventuali nessi fra il camorrista ed i terroristi che giustificassero i contatti, come sul suo reale ruolo nell’operazione, come ancora sull’ipotesi che lo stato abbia dovuto patteggiare con un criminale di tal fatta, sarebbe di lì in poi sempre restato sospeso uno sconcertante silenzio delle autorità.

Un’eco di questa vicenda è stata però da taluni rilevata nella “strana” uccisione (1986) del vicequestore della Polizia di Stato Antonio Ammaturo ed il suo agente Pasquale Paola; Ammaturo infatti, fu ucciso dalle Brigate Rosse, ma la sua attività professionale non riguardava il terrorismo, occupandosi a tempo pieno di lotta alla camorra. Alquanto strano era quindi che le BR colpissero un funzionario per esse non pericoloso, quantunque fastidioso per la criminalità organizzata.

Cutolo fu poi trasferito nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara, in Sardegna, per forti pressioni di Sandro Pertini, allora capo dello stato.

La terra trema, la camorra freme

Il 23 novembre 1980 un disastroso terremoto colpì l’Italia meridionale (particolarmente l’Irpinia) e la criminalità organizzata si insinuò per intercettare almeno in parte sia gli aiuti di prima necessità che il fiume di soldi che fu stanziato per la ricostruzione (50000 miliardi di lire). La situazione di emergenza fece necessariamente conferire grande discrezionalità alle amministrazioni locali e rappresentò un terreno molto fertile per la camorra che lucrò sul mercato nero degli aiuti e soprattutto, sugli appalti per la ricostruzione.

La camorra già gestiva propri istituti di credito ed aziende produttive, e si trasformò in breve tempo in una vera e propria holding del crimine, contro la quale in pochi osavano opporsi e chi lo faceva rischiava di pagare con la vita.Così pare sia accaduto a Marcello Torre, “reo” di aver bloccato l’assegnazione di un appalto per la rimozione delle macerie ad un’impresa della criminalità organizzata.

Il fiume di denaro pubblico che seguì al terremoto del 1980, paradossalmente, segnò l’inizio della fine del dominio incontrastato di Cutolo. Anche le altre famiglie della vecchia camorra campana, come gli Zaza (affiliati alla mafia siciliana), i Giuliano di Forcella ed i Casalesi, volevano avere la loro parte: riuniti in un’associazione provvisoria detta “onorata fratellanza”, presero perciò accordi con il braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo, per una spartizione territoriale, ed in un primo momento fu loro assegnata la città di Napoli, mentre Cutolo tenne per sé la campagna. Ma l’accordo fu ripensato e Cutolo, oltre a cercare di riprendersi la zona di Forcella-Duchesca-Mercato-Via del Duomo, assegnata ai Giugliano-Marano, pretese una tangente sul contrabbando delle sigarette di 30000 lire a cassa. Gli Zaza non cedettero al ricatto e fu guerra.

Nacque così una nuova organizzazione con l’obiettivo di contrastare i cutoliani. A comandare la “Nuova Famiglia” erano Lorenzo Nuvoletta, Carmine Alfieri, Umberto Ammaturo, Michele Zaza ed i fratelli Bardellino.

La cappa di piombo

Tra il 1980 ed il 1981 le vittime della guerra tra NCO e Nuova Famiglia furono circa 400, in media più di uno al giorno, cifra che sarebbe aumentata al ritmo di 250 all’anno in un’apoteosi di violenza senza precedenti. Casal di Principe, nel casertano, ottenne il sinistro primato di area urbana col più alto tasso di omicidi d’Europa; ma “brillava” anche per l’altrettanto singolare record di 17 consiglieri comunali su 30 sotto inchiesta per collusioni con la camorra.

Nell’estate del 1981 presso la masseria dei Nuvoletta i boss si riunirono per cercare di porre fine alla mattanza. Dopo poco tempo i cutoliani uccisero Salvatore Alfieri e la guerra riprese, a tutti i livelli ed in tutti gli ambienti. Amche nelle carceri si dovettero prevedere due sezioni distinte: una per i cutoliani e una per quelli della nuova famiglia.

I cutoliani erano in numero maggiore, ma quelli della Nuova Famiglia erano militarmente meglio organizzati e potevano contare sull’appoggio della mafia siciliana. Alcuni sostengono che il fattore decisivo per le sorti della guerra sia in realtà stata la graduale perdita di appoggio politico da parte di Cutolo.

A perdere la guerra fu la NCO di Cutolo, i cui uomini passarono con la Nuova Famiglia o furono ammazzati, come Casillo che, forse per mano di Carmine Alfieri, saltò in aria nel quartiere di Primavalle a Roma (a poca distanza da Forte Boccea, che ospita uffici del Sismi), appena salito a bordo della sua nuova auto; la sua convivente, dopo poco tempo fu trovata murata in un pilone di calcestruzzo.

La nuova famiglia continuò i suoi affari illeciti per alcuni anni, fino a quando fu anch’essa vittima di una guerra interna.

I soprannomi dei boss

Paolo Di Lauro è conosciuto come "Ciruzzo 'o milionario": un contronome ridicolo, ma soprannomi e contronomi hanno una precisa logica, una sedimentazione calibrata. Ho sempre sentito chiamare gli appartenenti al Sistema con il soprannome, al punto che il nome e il cognome in molti casi arriva a diluirsi, a essere dimenticato. Non si sceglie un proprio contronome, spunta d'improvviso da qualcosa, per qualche motivo, e qualcuno lo riprende. Così per mero fato nascono i soprannomi di camorra. Paolo Di Lauro è stato ribattezzato "Ciruzzo 'o milionario" dal boss Luigi Giuliano che lo vide una sera presentarsi al tavolo da poker mentre lasciava cadere dalle tasche decine di biglietti da centomila lire. Giuliano esclamò: "E chi è venuto, Ciruzzo 'o milionario?". Un nome uscito in una serata brilla, un attimo, una trovata giusta.

Ma il florilegio di contronomi è infinito. Carmine Alfieri "'o 'ntufato", l'arrabbiato, il boss della Nuova Famiglia, venne chiamato così per il ghigno di insoddisfazione e rabbia sempre presente sul suo viso. Poi ci sono i contronomi che provengono dai soprannomi degli avi di famiglia e che si appiccicano anche agli eredi, come il boss Mario Fabbrocino

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detto "'o graunar'", il carbonaio: i suoi avi vendevano il carbone e tanto era bastato per definire così il boss che aveva colonizzato l'Argentina con i capitali della camorra vesuviana. Ci sono soprannomi dovuti alle passioni dei singoli camorristi come Nicola Luongo, detto "'o wrangler", un affiliato fissato con i fuoristrada Wrangler, divenuti veri e propri modelli prediletti dagli uomini di Sistema. Poi i contronomi nati sulla scorta di particolari tratti fisici, Giovanni Birra "'a mazza" per il suo corpo secco e lungo, Costantino Iacomino "capaianca" per i capelli bianchi che gli spuntarono prestissimo in testa, Ciro Mazzarella "'o scellone" dalle scapole visibili, Nicola Pianese chiamato "'o mussuto" ossia il baccalà per la sua pelle bianchissima, Rosario Privato "mignolino", Dario De Simone "'o nano" il nano. Contronomi inspiegabili come Antonio Di Fraia detto "'u urpacchiello" un termine che sta per frustino, di quelli ricavati essiccando il pene dell'asino. E poi Carmine Di Girolamo detto "'o sbirro" per la capacità di coinvolgere nelle sue operazioni poliziotti e carabinieri. Ciro Monteriso "'o mago" per chissà quale ragione. Pasquale Gallo di Torre Annunziata dal viso grazioso detto "'o bellillo", i Lo Russo definiti "i capitoni" come i Maliardo i "Carlantoni" e i Belforte i "Mazzacane" e i Piccolo i "Quaq-quaroni", vecchi nomi dei ceppi di famiglia. Vincenzo Mazzarella "'o pazzo" e Antonio Di Biasi, soprannominato "pavesino" perché quando usciva a fare operazioni militari si portava sempre dietro i biscotti pavesini da sgranocchiare. Domenico Russo, soprannominato "Mimi dei cani" boss dei Quartieri Spagnoli, chiamato così perché da ragazzino vendeva cuccioli di cane lungo via Toledo. E poi Antonio Carlo D'Onofrio "Carlucciello 'o mangiavatt'" ossia Carletto il mangiagatti, leggenda vuole che avesse imparato a sparare usando i gatti randagi come bersaglio. Gennaro Di Chiara che scattava violentemente ogni qual volta qualcuno gli toccava il viso era detto "file scupierto", filo scoperto. Poi ci sono contronomi dovuti a espressioni onomatopeiche intraducibili come Agostino Tardi detto "picc pocc" o Domenico di

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Ronza "scipp scipp" o la famiglia De Simone detta "quaglia

quaglia", gli Aversano detti "zig zag", Raffaele Giuliano '"o

zuì", Antonio Bifone "zuzù". , . , -.-,

Gli è bastato ordinare spesso la stessa bevanda e Antonio Di Vicino è divenuto "lemon", Vincenzo Benitozzi con un viso tondo veniva chiamato "Cicciobello", Gennaro Lauro, forse per il numero civico dove abitava, detto "'o diciassette", poi Giovanni Aprea "punt 'e curtiello" perché il nonno, nel 1974, partecipò al film di Pasquale Squitieri I guappi, interpretando il ruolo del vecchio camorrista che allenava i "guaglioni" a tirare di coltello.

Ci sono invece contronomi calibrati che possono fare la fortuna o sfortuna mediatica di un boss come quello celebre di Francesco Schiavone detto Sandokan, un contronome feroce scelto per la sua somiglianza con Kabir Bedi, l'attore che interpretò l'eroe salgariano. Pasquale Tavoletta detto Zorro per la somiglianza, a sua volta, con l'attore del telefilm televisivo, o quello di Luigi Giuliano "'o re", detto anche Lovigino, contronome ispirato dalle sue amanti americane che nell'intimità gli sussurravano "I love Luigino". Da qui Lovigino. Il contronome di suo fratello Carmine "'o lione", e quello di Francesco Verde alias "'o negus" come l'imperatore di Etiopia per la sua ieraticità e per il suo essere boss da lungo tempo. Mario Schiavone chiamato "Menelik" come il famoso imperatore etiope che si oppose alle truppe italiane, e Vincenzo Carobene detto "Gheddafi" per la sua straordinaria somiglianza con il figlio del generale libico. Il boss Francesco Bidognetti è conosciuto come "Cicciotto di Mezzanotte", un contronome nato dal fatto che chiunque si fosse frapposto tra lui e un suo affare avrebbe visto calare su di sé la mezzanotte anche all'alba. Qualcuno sostiene che il soprannome gli fu affibbiato perché da ragazzo aveva iniziato la scalata ai vertici del clan proteggendo le puttane. Tutto il suo clan veniva definito ormai "il clan dei Mezzanotte".

Le case celesti

Le Case Celesti, chiamate così per il colore azzurrino pallido che in origine avevano, costeggiano via Limitone d'Arcano e sono divenute una delle migliori piazze della cocaina in Europa. Un tempo non era così. A rendere questa piazza così conveniente è stato, secondo le indagini, Gennaro Marino McKay. È lui il referente del clan in questo territorio. Non solo referente; il boss Paolo Di Lauro, che stima la sua gestione, gli ha dato la piazza in franchising. Può fare tutto in autonomia, deve solo versare una quota mensile alla cassa del clan. Gennaro e suo fratello Gaetano sono detti i McKay. Tutto è dovuto alla somiglianza che il padre aveva con lo sceriffo Zeb McKay del telefilm Alla conquista del West. Tutta la famiglia così è divenuta non più Marino ma McKay. Gaetano non ha le mani. Ha due protesi di legno. Di quelle rigide. Laccate di nero. Le ha perse combattendo nel 1991. La guerra contro i Puca, una vecchia famiglia cutoliana. Stava maneggiando una bomba a mano, e gli esplose tra le mani facendo saltare in aria le dita. Gaetano McKay ha sempre un accompagnatore, una sorta di maggiordomo, che prende il posto delle sue mani, ma quando deve firmare, riesce a farlo bloccando la penna con le protesi, rendendola un perno, un chiodo fisso sulla pagina, e poi si aggroviglia con il collo e i polsi, riuscendo a tracciare con grafia impercettibilmente sghemba la sua firma.

Genny McKay, secondo le indagini della Procura Antimafia di Napoli, era riuscito a creare una piazza capace di stoccare e smerciare. D'altronde il buon prezzo ricevuto dai fornitori è dovuto proprio alla capacità di accumulare e in questo la giungla di cemento di Secondigliano, con i suoi centomila abitanti, aiuta. Il corpo delle persone, le loro case, la loro vita quotidiana divengono la grande muraglia che circoscrive i depositi di droga. Proprio la piazza delle Case Celesti ha per-

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messo un inabissamento dei costi della coca. Solitamente si parte da cinquanta-settanta euro al grammo e si arriva sui cento-duecento euro. Qui è scesa a venticinque-cinquanta continuando ad avere una qualità molto alta. Leggendo le indagini della DDA, emerge che Genny McKay è uno degli imprenditori italiani più capaci nel ramo della coca, essendo riuscito a imporsi su un mercato in crescita esponenziale pari a nessun altro. L'organizzazione delle piazze di spaccio poteva avvenire anche a Posillipo, ai Parioli, a Brera, ma è avvenuta a Secondigliano. La manodopera in qualsiasi altro luogo avrebbe avuto un costo elevatissimo. Qui la totale assenza di lavoro, l'impossibilità di trovare altra soluzione di vita che non sia l'emigrazione, rende i salari bassi, bassissimi. Non c'è altro arcano, non c'è da fare appello a nessuna sociologia della miseria, a nessuna metafisica del ghetto. Non potrebbe essere ghetto un territorio capace di fatturare trecento milioni di euro l'anno solo con l'indotto di una singola famiglia. Un territorio dove agiscono decine di clan e le cifre di profitto raggiungono quelle paragonabili solo a una manovra finanziaria. Il lavoro è meticoloso, e i passaggi produttivi costano moltissimo. Un chilo di coca al produttore costa mille euro, quando va al grossista già costa trentamila euro. Trenta chili diventano centocinquanta dopo il primo taglio: un valore di mercato di circa quindici milioni di euro. E se il taglio è maggiore a tre chili ne puoi tirare anche duecento di chili. Il taglio è fondamentale, quello da caffeina, glucosio, mannitolo, paracetamo-lo, lidocaina, benzocaina, anfetamina. Ma anche talco e calcio per i cani quando le emergenze lo impongono. Il taglio determina la qualità, e il taglio fatto male attira morte, polizia, arresti. Occlude le arterie del commercio.